Sovranità del Parlamento vuol dire sovranità del Parlamento. La decisione dell’Alta corte di giustizia nel caso Miller vs Secretary of State for Exiting the European Union contiene importanti indicazioni per quanto riguarda il ruolo del Parlamento nella costituzione politica del Regno Unito, per l’interpretazione dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, per la strategia del governo di Theresa May rispetto alla traiettoria che quasi sicuramente porterà comunque all’uscita del Regno Unito dall’Unione.
La questione costituzionale nel caso specifico è di natura squisitamente giurisdizionale. Dato che l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea prevede che l’azionabilità della procedura spetti allo Stato membro, a protezione della sua autonomia decisionale, l’individuazione dell’istituzione che possa inviare la notifica al Consiglio europeo viene lasciata alla costituzione dello Stato stesso.
Il governo di Theresa May ha deciso di ricorrere alla prerogativa regale per procedere alla notificazione e quindi alla negoziazione con i partner europei. La prerogativa regale attribuisce al governo britannico competenze per gestire le relazioni internazionali e la facoltà di negoziare e firmare i trattati internazionali. Se giudicato legittimo, il ricorso alla prerogativa regale avrebbe consentito al governo di gestire sia la tempistica dell’attivazione dell’articolo 50 sia le modalità di negoziazione con l’Unione europea senza dover sottostare al controllo parlamentare. Il tema è controverso e ovviamente il Parlamento di Westminster dove entrambe le Camere sono a maggioranza contrarie al Brexit, ha un forte incentivo per intervenire nella procedura, se non altro per porre una serie di condizioni e per rimanere informato degli sviluppi delle negoziazioni.
Un gruppo di cittadini facoltosi, guidati da Gina Miller (e, peraltro, tutti legati al mondo della City londinese), ha fatto ricorso all’Alta corte per richiedere il coinvolgimento del Parlamento di Westminster nell’attivazione dell’articolo 50. La richiesta di Miller è di natura procedurale, ossia riguarda solo la questione della competenza ad attivare la procedura di uscita dall’Unione. In altri termini, Miller e gli altri non chiedevano alla Corte di rovesciare il risultato del referendum del 23 giugno, ma soltanto di stabilire a chi spetti attivare l’articolo 50. Data la tradizionale cautela dell’Alta corte di fronte a questioni che hanno una portata politica evidente, la sentenza non era quella prevista dalla maggioranza dei commentatori ed è arrivata come una sorpresa. L’Alta corte ha ritenuto che il governo non possa utilizzare la prerogativa regale poiché l’uscita dall’Unione comporta la perdita di una serie di diritti individuali già disponibili per i cittadini britannici. In una ricostruzione breve, ma precisa, l’Alta corte ha mostrato la genesi della sovranità del Parlamento e come questa sia l’origine dei diritti fondamentali. Di conseguenza, l’introduzione e la cancellazione di diritti individuali dall’ordinamento del Regno Unito deve sempre passare per il Parlamento. Questo ragionamento vale, naturalmente, per la validità dei diritti stabiliti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (introdotta con lo Human Rights Act) e per tutti i diritti creati per mezzo dell’appartenenza all’Unione Europea. In quest’ultimo caso, i diritti di matrice europea «entrano» nell’ordinamento britannico attraverso la porta dello European Communities Act (1972), l’atto legislativo con il quale il Parlamento ha sancito l’ingresso nell’Unione europea. È vero che in teoria alcuni dei diritti che verrebbero persi dall’uscita dall’Unione (ad esempio, quelli introdotti con la direttiva sull’orario di lavoro) potrebbero essere integrati e garantiti dal governo. Ma questo non è sempre possibile, come il governo stesso ha dovuto concedere nel corso delle udienze. I diritti legati alla circolazione e i diritti politici (come il diritto di elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo, o il diritto di ricorrere all’Ombudsman europeo) verranno sacrificati dal Brexit. Alla luce di questa considerazione, la Corte ha stabilito che soltanto la sovranità del Parlamento può revocare diritti già introdotti nell’ordinamento europeo.
Un passaggio chiave per giungere a questa decisione riguarda l’interpretazione dell’articolo 50. Entrambe le parti (Miller e il governo) hanno convenuto che una volta azionata la procedura prevista dall’articolo 50 non vi sia più possibilità di tornare indietro. Il testo dell’articolo stabilisce che, senza il consenso di tutte le parti coinvolte, entro due anni dall’attivazione lo Stato membro uscirà automaticamente, anche in assenza di un trattato che regoli i rapporti fra lo Stato e l’Unione europea. L’articolo non chiarisce in maniera esplicita se vada esclusa la possibilità di una revoca della procedura. Ciò che conta, in questo caso, è che entrambe le parti fossero d’accordo sulla irrevocabilità del Brexit. L’Alta Corte ne ha dedotto che una volta iniziato il processo, alcuni diritti sarebbero stati inevitabilmente a rischio di estinzione. Pertanto, solo il Parlamento sovrano può decidere quando e come azionare la procedura di uscita dall’Unione. Nessuno dubita che il Parlamento si opporrà a Brexit. Concretamente, questo significa che il Parlamento potrà porre al governo condizioni per le negoziazioni (leggi: una Brexit più o meno dura, e quindi probabilmente meno dura) e sicuramente chiederà di essere costantemente informato in modo da poter esercitare uno scrutinio serio e stringente delle politiche del governo.
Nel frattempo, la decisione dell’Alta Corte è stata appellata dal governo di fronte alla Corte Suprema. Le udienze sono già state fissate per il 7 e l’8 dicembre e la decisione è prevista entro la fine dell’anno. Se il governo manterrà questa strategia è difficile immaginare che potrà vincere il ricorso. L’idea di continuare secondo il piano originale (attivazione della procedura a fine marzo 2017) suona alquanto retorica in assenza di un cambio di argomentazione. Può darsi, pertanto, che il governo decida di presentare un argomento sulla revocabilità dell’articolo 50. In tal modo, però, la Corte suprema potrebbe richiedere un giudizio della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’interpretazione del controverso articolo. A quel punto, lo scenario politico-istituzionale diverrebbe molto complicato e le tensioni create da una interpretazione lasca dell’articolo 50 colpirebbero anche l’Unione Europea. È difficile immaginare che le istituzioni europee non siano consapevoli della china scivolosa nella quale l’Unione potrebbe precipitare se il messaggio che si possa attivare la procedura di uscita e poi revocarla dovesse diventare patrimonio comune degli Stati membri. Le conseguenze di Brexit sono ben lungi dall’essersi esaurite e questo vale sia per il Regno Unito sia per l’Unione.
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