Provaci ancora Nick. Dopo le consultazioni locali e referendarie del 5 maggio scorso, l’attenzione degli osservatori si è rivolta in particolare allo storico risultato scozzese, ma l’appuntamento elettorale ha rappresentato soprattutto un primo banco di prova per i tre partiti maggiori, dopo un anno di coalizione LibCon. Proprio i Lib-Dem sono i chiari sconfitti del voto: spazzati via in Scozia, ridotti alle due roccaforti nelle isole; perdenti in Galles; decimati in Inghilterra, con una riduzione di consiglieri nelle contee del Sud e ancor più nelle città industriali del Nord, tra cui Sheffield, constituency di Nick Clegg. L’impopolarità del leader, al 50% perfino tra i sostenitori del partito, è stato uno dei principali fattori che hanno determinato la sconfitta alle elezioni amministrative, ma ha anche contribuito alla sonora bocciatura del referendum per la riforma elettorale da lui promosso. Al contrario, i conservatori, schierati nella campagna per il No, hanno sfruttato il referendum per mobilitare i propri elettori, riuscendo a contenere le perdite di voti e anzi guadagnando seggi nel Sud a spese degli alleati. Nonostante l’impopolarità della politica di tagli e tassi di gradimento per il governo poco superiori al 30%, i Tories resistono alle elezioni, scaricando il malcontento sullo junior partner della coalizione.
Se la scelta della coalizione era inevitabile all’indomani delle elezioni del maggio 2010, i Lib-Dem hanno però commesso l’errore di mostrare il governo come un corpo unico, più coeso delle coalizioni continentali ma anche dei gabinetti laburisti Blair-Brown. Così, il partito di Clegg, che senza un proprio portafoglio appare del tutto subordinato al primo ministro, si è assunto le responsabilità della politica conservatrice e non è riuscito a mostrare il suo ruolo di contro-bilanciamento. Se vuole evitare la totale disfatta personale e politica, Clegg deve iniziare a marcare le differenze con i Tories, anche se il suo potere di veto è oggi ancor più debole. Questo nuovo «liberalismo muscolare» è già in atto nel contrastare la riforma sanitaria e della polizia, mentre tenta di rilanciare nuove riforme costituzionali: in primo luogo, una durata fissa di cinque anni della legislatura, sottraendo al premier il potere di scioglimento; in secondo luogo, la più difficile riforma della Camera dei Lord; mentre i conservatori trarrebbero vantaggio dalla ridefinizione dei collegi elettorali. Nessuno ha per ora interesse alla rottura della coalizione, né i Tories, elettoralmente in affanno, né Clegg, che basa sul governo la propria sopravvivenza politica, né la velata opposizione interna al partito, che sarebbe spazzato via in eventuali elezioni. Tuttavia, se la sopravvivenza della coalizione appare per ora abbastanza sicura, lo potrebbe essere meno, nel medio termine, la sopravvivenza dello stesso partito liberal-democratico, sottoposto a forti tensioni interne tra la fazione più liberale e quella ex-socialdemocratica. Si pensi al precedente del 1931, quando il vecchio partito si spaccò proprio sulla coalizione con i conservatori, con la fuoriuscita del gruppo di Lloyd George.
Nell’attuale scenario, con un governo impopolare e potenzialmente diviso, dov’è il Labour? Alle elezioni locali inglesi ha guadagnato voti e oltre 850 consiglieri, a danno dei Lib-Dem, ma ha fallito nella vera sfida ai Tories nel Sud. In Scozia, concentrandosi sull’attacco al governo di Westminster, è apparso poco attento ai problemi scozzesi, guidato a Londra da un leader inglese dopo gli anni di Blair e Brown. Inoltre, la leadership locale è stata decapitata e il partito è costretto a ripartire dalle seconde file. La vittoria in Galles, ottenuta con una forte direzione locale e prendendo le distanze dal partito centrale, è una magra consolazione. Ed Miliband non è ancora riuscito a imporsi come un leader credibile e pronto ad assumere la guida del paese, né è riuscito a far dimenticare gli anni dei governi laburisti, ancora ritenuti dall’opinione pubblica responsabili del cattivo stato dell’economia. La sfida per il Labour rimane dunque la stessa di sempre: riconquistare la classe media moderata, lo «squeezed center» alle prese con la crisi economica e l’insicurezza.
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