Il destino delle regole in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali, in Italia, è legato a doppio filo con la vocazione turistica dell’economia, soprattutto quella che – concentrandosi a Roma capitale – è destinata ad acquisire maggiore visibilità mediatica internazionale. Nel 1990 solo i Mondiali di calcio avrebbero potuto rappresentare quell’occasione socialmente accettabile per coagulare il supporto - dentro e fuori del Parlamento - necessario per introdurre la prima legge in materia, dopo oltre quarant’anni di solitario monopolio giurisprudenziale, esercitato con cautela dalla Corte costituzionale evitando di dichiarare l’illegittimità completa delle norme del codice penale Rocco che vietavano l’abbandono individuale e collettivo di un pubblico servizio (art. 330 e 333 cp). Nel 2000, il Giubileo e l’Anno Santo hanno contribuito all’entrata in vigore delle modifiche alla stessa legge (molto più della pressione delle astensioni collettive degli avvocati nelle aule giudiziarie), rinforzando la parte procedurale delle regole già in vigore da dieci anni, con l’aggiunta di più strutturate procedure di raffreddamento e di conciliazione. Ma è lo scandalo delle file di turisti fuori dal Colosseo chiuso per assemblea, sconcertati da un cartello con orario sbagliato appeso all’entrata, che ha rappresentato la ragione immediata e diretta della modifica più recente contenuta nel d.l. 20 settembre 2015, n. 146 intitolato Misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione.
L’assenza di continuità rispetto al passato recente è evidente. Tra le differenze fondamentali sulle quali riflettere può annoverarsi l’uso del decreto legge utilizzato per estendere il concetto di servizio pubblico, scontato l’affiancamento – già nella legge istitutiva – alla “tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della persona […] dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico”, nell’elenco tassativo dei diritti garantiti dalla Costituzione che possono giustificare un contemperamento con il diritto di sciopero garantito dall’art. 40 Cost. Gli accordi per limitare tale diritto risultavano, però, ammessi limitatamente alla più ristretta “vigilanza sui beni culturali”; dall’entrata in vigore del d.l. 146/2015, tra i servizi, sono inclusi “l’apertura al pubblico di musei e luoghi della cultura, di cui all'articolo 101 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni”.
Si sa, il decreto legge è motivato da casi straordinari di necessità e di urgenza che – nel caso concreto – appaiono più un segnale eloquente della volontà di punire un soggetto (quello sindacale) per un’azione che non si condivide idealmente, piuttosto che l’obiettivo di risolvere concretamente la vicenda del disservizio ai turisti in visita nel Belpaese.
Gli esperti d’arte non potranno che enfatizzare la nefasta sorte dei beni culturali. Per chi studia il diritto del lavoro, la fruizione dei beni culturali è secondaria. Quello che appare evidente è, invece, la crescente cesura tra l’azione del sindacato e quella di governo, certamente non solo quello in carica. Non è necessario ricordare l’abbandono di ogni rilevanza delle teorie dello scambio politico-sindacale alla base della concertazione. Esistono altri e diversi segnali di questa mutata realtà. Per limitarsi all’oggetto dello sciopero nei servizi pubblici, non può non colpire l’attenzione dello studioso un aspetto secondario: l’allontanamento graduale, ma inesorabile dei profili professionali dei componenti prescelti dai presidenti di Camera e Senato della Commissione di garanzia istituita nel 1990 da ogni comprovata competenza di diritto del lavoro e sindacale, a fronte di un glorioso passato dal segno esattamente e doverosamente opposto, di evidente rispetto per l’autonomia e il pluralismo del pensiero giuridico lavorista che ha portato nel consesso presenze di rilievo come Gino Giugni, Giorgio Ghezzi, Umberto Romagnoli, Tiziano Treu, Maria Vittoria Ballestrero e molti altri ancora.
Il profilo professionale non è un vezzo accademico. Il tema dello sciopero, politicamente scivoloso, è anche tecnicamente delicato e meriterebbe maggiore attenzione nelle sedi istituzionali. E il caso del Colosseo non è che un esempio ulteriore.
La scelta del decreto legge rinvia, anche, alla funzione cui è destinata ad assolvere la modifica legislativa chiaramente punitiva, come spiegano le numerose dichiarazioni politiche pubbliche indignate che l’hanno accompagnata. L’intervento del governo diventa, insomma, segnale eloquente dell’abbandono della classica cautela che ha sempre accompagnato gli attori istituzionali al cospetto del diritto di sciopero.
Nell’equilibrio delicato di una legge come quella regolante le prestazioni minime da rispettare in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali, quando alla cautela si sostituisce l’intento punitivo, il funzionamento della legge è destinato a deflagrare in una serie di reazioni a catena di difficile gestione, come ammette involontariamente lo stesso Presidente della Commissione di garanzia – Roberto Alesse – nell’audizione presso la Commissione Lavoro publico e privato della Camera dei deputati lo scorso 7 ottobre 2015.
Il nocciolo della questione è quello delle concrete modalità di esercizio dello sciopero nel settore dei beni culturali, ma anche dell’assemblea sindacale dopo l’entrata in vigore della correzione alla legge in vigore. Dopo il 20 settembre 2015 le prestazioni minime dovranno estendersi non solo alla “salvaguardia e tutela del bene culturale”, ma anche alle “forme di fruizione dello stesso”. Riconoscendo che la legge impone che siano mantenute le prestazioni indispensabili nella misura del 50% delle prestazioni normalmente erogate, il d.l. imporrà accordi che riguardino quote strettamente necessarie di lavoratori non superiori mediamente ad un terzo del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio. Il Presidente della Commissione aggiunge nell’audizione che “la garanzia di apertura di tutti i musei ed i luoghi di cultura indicati nel decreto potrebbe in realtà scontrarsi con la cronica carenza di personale preposto a tale servizio”.
Se il limite al diritto si estende dalla “vigilanza” alla “fruizione” del servizio pubblico, vista la dimensione del patrimonio artistico, il problema perde i connotati di tipo strettamente sindacale; diventa problema di sostenibilità, organizzativo, dell’amministrazione di riferimento competente a gestire il patrimonio stesso (Mibac ed enti pubblico locali, coinvolgendo qualunque ente che gestisca il patrimonio come i comuni e anche quel che resta delle province).
Lo scenario che si prospetta non vede protagoniste tanto le parti sociali, quanto soprattutto la dotazione organica con la quale fare i conti delle prestazioni indispensabili. Solo ovvio constatare che la fase di revisione degli accordi (comparto ministeri e comparto regioni ed autonomie locali), cominciata in un’atmosfera non certo ottimale, incontrerà più ostacoli strutturali che sindacali e il fatto che la Commissione immagini di esercitare i poteri sostitutivi conferiti dalla legge, adottando una Regolamentazione provvisoria in materia di prestazioni indispensabili, non rassicura certo i conoscitori dello stato del patrimonio nazionale come non dovrebbe rassicurare le agenzie di viaggi.
Nel caso dei servizi pubblici – proprio perché pubblici – occorre essere consapevoli che questa scelta rischia di diventare un boomerang. La fretta della reazione punitiva è destinata ad amplificare i problemi gestionali più che a risolverli e, paradossalmente, la scelta di affrontare il problema del disservizio (la “coda”), con una maggiore enfasi sulle modalità di comunicazione errate prescelte avrebbe favorito esiti diversi, meno impegnativi per le stesse amministrazioni pubbliche. Certo. Non si sarebbe però ristretto l’esercizio del diritto di sciopero che appare, forse, l’obiettivo principale dello stesso intervento.
Il quadro, anche per il sindacato, quando compare l’utenza cambia, e non basta richiamare l’assenza di vincoli e l’esercizio teorico del diritto di matrice costituzionale. Con altrettanta consapevolezza, infatti, deve considerare come riduttiva la risposta del sindacato che si limita a ricordare come, nel caso concreto, non si è trattato di sciopero, ma di assemblea. Sul punto non occorre riscoprire una delibera della stessa Commissione di garanzia del 2004 in virtù della quale l’assemblea in orario di lavoro, “pur se incidente su servizi pubblici essenziali, non è assoggettata alla disciplina di cui alla legge 146/90” se viene convocata nel rispetto dell’art. 20 dello Statuto dei lavoratori e della contrattazione collettiva “a condizione che la disciplina contrattuale garantisca l’erogazione dei servizi minimi. Se tali servizi minimi non sono assicurati, l’astensione sarà considerata sciopero ex legge 146/90”. È sufficiente ricordare che le trappole mediatiche vanno evitate proprio in un periodo di maggiore esposizione conflittuale. Detto in altre parole, all’uso strumentale del caso Colosseo da parte del governo, non può rispondersi con la sola indifferenza per il concetto stesso di coda proprio alla vigilia del Giubileo.
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