Mentre varco la soglia dell'asilo di mio figlio per partecipare al Garden Party in onore di re Carlo III, un senso di inquietudine mi assale. Riuscirò a non attirare troppo l’attenzione e mantenere la calma, io, repubblicana e per di più straniera? La vista di alcuni genitori acconciati con cappellini a trama Union Jack non aiuta i miei nervi, né tanto meno i libri per bambini a tema coronation esposti con orgoglio patriottico all’ingresso. Nell’era post-Brexit, il timore di vedersi contestare il “diritto a restare” nel Paese che un tempo ci considerava concittadini europei e che ora ci etichetta come migranti è un sentimento che accomuna tanti expats. Se ci si può permettere di criticare primi ministri e politici di vari schieramenti, il rischio di offendere l’interlocutore quando a essere messa in discussione è la Casa reale diventa più tangibile. Perché nonostante le numerose cadute di stile di tanti membri di spicco della House of Windsor, il costante pettegolezzo attorno al Palazzo, le serie Tv e i litigi intra-familiari, la corona inglese non ha del tutto perso quell'aura di dignità che le ha permesso di attraversare secoli di storia

Questi pensieri mi assillano dallo scorso settembre, da quando il Paese ha pianto la scomparsa di Elisabetta II, morta dopo 96 anni di vita e 70 di regno. La fila per rendere omaggio alla sovrana partiva nei pressi della mia abitazione e si estendeva fino a Westminster hall, per ben quattro chilometri. Sulla strada verso il lavoro, incrociavo quella fila di gente. Persone sorridenti nonostante il contesto e la stanchezza, con caffè da asporto in mano e, i meno giovani, sgabelli da campeggio e plaid. Al ritorno a casa, otto ore dopo, la ritrovavo lì, più infreddolita ma non meno decisa. C’è chi è rimasto in coda per 13 ore. Ore di pazienza e determinazione che si concludevano con un veloce passaggio nell’atrio di Westminster, dove il feretro della regina era esposto su un catafalco sorvegliato giorno e notte. In totale, sono stati quattro e mezzo i giorni di lutto nazionale, un periodo scandito da telegiornali presentati da giornalisti in gramaglie che mandavano a ripetizione servizi in ricordo della longeva regina. In tanti hanno gioito per l’extra giorno di vacanza che ci è stato concesso, ma c’è anche chi si è ritrovato l’aereo cancellato per evitare che il rombo dei motori disturbasse la funzione funebre. 

La vera eredità di Elisabetta è l’essere riuscita a far funzionare e sopravvivere la macchina monarchica per settant'anni. Che saprà farsene Carlo, circondato da molti dubbi sul senso stesso della monarchia?

Immagino che Carlo abbia provato una miscela di emozioni vedendo quella folla devotamente in attesa di salutare la sua “beloved mother”. Sicuramente avrà sentito calore e vicinanza, ma forse anche un po’ di timore. “Proveranno lo stesso affetto nei miei confronti?”, si sarà chiesto. Nel profondo di sé, conosceva già la risposta. Perché in fin dei conti la vera eredità lasciatagli dalla madre non è tanto la Corona, quel “cappello” al quale è destinato dall’età di tre anni e verso cui non è mai stato troppo entusiasta, per usare l’espressione simpatica dell’“Economist”. La vera eredità di Elisabetta è l’essere riuscita a far funzionare e sopravvivere la centenaria macchina ereditaria per altri sette decenni. Una regina enigmatica e apparentemente distante, ma capace - talvolta più, talvolta meno - di connettersi con i sentimenti dei sudditi nei momenti cruciali della loro storia nazionale. Elisabetta ha saputo utilizzare con maestria il potere simbolico e cerimoniale che le fu conferito nel lontano 1953, dimostrando intelligenza e ponderazione nell’esercizio del suo ruolo. Una dedizione alla neutralità, in sintonia con i principi costituzionali del Regno, che ha spesso suscitato critiche legittime. (Il suo silenzio sulla questione Brexit, ad esempio, è stato da molti interpretato come un tacito consenso.) Ma è stata proprio la sua abilità nel mantenere la distanza dagli affari politici a consentirle di preservare intatto il potere incarnato dalla sua figura, prima, e da quella del primogenito, oggi.

Ammettiamolo: nel 2023, un indice di gradimento per la monarchia del 62% non sembra affatto male. Certo, questa percentuale non è uniforme tra i vari gruppi della popolazione, con gli anziani che mostrano maggiore entusiasmo e i giovani più scetticismo (il 44% dei britannici dai 18 ai 24 anni preferirebbe avere un capo di Stato eletto, contro il 36% che si reputa soddisfatto di mantenere l’istituto monarchico). Quanto sto per dire si basa su conversazioni informali con colleghi e conoscenti inglesi e non può quindi certo essere considerato fonte di una statistica accurata. Tuttavia, va sottolineato che spesso la monarchia viene scelta come male minore. Proprio ieri, una collega, quasi giustificandosi per aver dichiarato l’intenzione di seguire l’incoronazione in televisione, ha osservato come un sovrano ereditario alla stregua di Elisabetta sia preferibile a un presidente eletto dal popolo “alla Trump”. Sarà pure così, ma un Trump può essere mandato a casa alla tornata elettorale successiva, come infatti è accaduto, mentre un Re Donald e la sua discendenza rimarrebbero al potere a vita.

Spesso la monarchia viene scelta come male minore. Ma pensate che ne sarebbe di un Paese guidato da un "Re Donald", in carica sino alla fine dei suoi giorni

Ritornando a Carlo, che a 74 anni eredita il regno, sono in molti a nutrire scetticismo riguardo alle sue capacità di mantenere gli stessi livelli di approvazione raggiunti durante il regno della madre. Uno scetticismo che deriva non soltanto dal suo aspetto decisamente meno glamour – e si sa che l’immagine gioca un ruolo essenziale nel rapporto col pubblico – ma anche dalla sua personalità più spigolosa, che si riflette in una minore capacità di controllo e – ma questo sarà da vedere – in una scarsa propensione all’imparzialità. Infatti, Carlo è notoriamente molto più politico. La sua passione per la causa ambientalista è risaputa da anni e lo ha portato a dare la paternità a ben due libri: Harmony (Harper, 2010) e Climate Change (Penguin, 2017). Rivela poi che il nuovo re sia il primo sovrano ad aver frequentato l’università. La possibilità di commettere errori e deviazioni dall’etichetta non sembra quindi così improbabile.

Verosimilmente, l’imponente rituale di massa che si svolge in questo fine settimana di maggio riuscirà, almeno temporaneamente, ad aiutarlo nell’impresa di mantenere saldo il sostegno popolare. Come argomentato dall’antropologo Dimitris Xygalatas, i rituali svolgono una funzione fondamentale nelle nostre società in quanto forniscono “conforto”, creano “significato” e forgiano “un senso di appartenenza”. L’incoronazione di re Carlo conserva ancora molti elementi e riti che risalgono a secoli fa, a cominciare dall’unzione del sovrano, eseguita dall’arcivescovo di Westminster utilizzando il Cucchiaio dell’Incoronazione, cimelio risalente al XII secolo. Un rito considerato talmente importante agli occhi della tradizione – “un momento tra il Sovrano e Dio”, come si legge sul sito web della Casa reale – da non poter essere filmato. A proteggere l'intimità del momento ci pensa lo Schermo dell’Unzione, un separé il cui ricamo rappresenta tutti i 56 Stati membri del Commonwealth. Poiché ci sono anche loro, le ex colonie, oggi Stati indipendenti, alcuni dei quali continuano a condividere con il Regno Unito il capo dello Stato. Proprio per strizzare gli occhi sia alla diversità che esiste nel Commonwealth sia a quella interna al Paese stesso, per la prima volta nella storia la cerimonia includerà i rappresentanti delle principali fedi religiose.

Una maestra mi viene incontro. Mi chiedo se potrebbe far parte di quel 60% favorevole alla monarchia. Poi lo sguardo mi cade sulla spilletta che espone fiera al petto. Su di essa è scritto: Not my King!

Mentre rifletto su tutto questo, una maestra mi viene incontro. Mi chiedo se potrebbe far parte di quel 60% favorevole alla monarchia. Poi lo sguardo mi cade sulla spilletta che espone fiera al petto. Su di essa è scritto: Not my King! Un senso di sollievo mi pervade, dandomi coraggio. Mi viene in mente il podcast investigativo del “Guardian”, intitolato “Il costo della corona”. Cinque puntate che mettono in luce il patrimonio della Casa reale, una ricchezza il cui confine tra pubblico e privato è spesso opaco e ambiguo. Puntate che rivelano le responsabilità della Corona riguardo allo schiavismo e tante altre zone oscure, come il fatto che il Palazzo sia esente dalla Legge sulla Libertà di Informazione che garantisce l’accesso del pubblico alle informazioni detenute da governo ed enti pubblici. Penso anche alle molte persone scese in piazza per manifestare i loro sentimenti repubblicani e protestare sia contro l'ingiustizia rappresentata da un potere che si trasmette in virtù del sangue sia contro l’assurdità dei soldi spesi per l’incoronazione, quella "pantomima costosa” – come l’ha definita Graham Smith, il capo del movimento anti-monarchico Republic, arrestato insieme ad altri manifestanti questa mattina, 6 maggio, dalle parti di Trafalgar Square. Un rituale di massa il cui costo si aggira tra i 50 e i 100 milioni di sterline, secondo stime che saranno confermate solo dopo l’evento, e che molti considerano uno schiaffo in faccia a un Paese in crisi economica e con tassi di povertà sconcertanti. 

Forte di queste consapevolezze, improvvisamente mi sento meno sola e un po’ meno straniera. Almeno per ora, il mio “diritto a restare” è fuori discussione.