Avevo paura a incontrare Leopold Kozlowski. Sapevo che avrei guardato negli occhi un uomo leggendario, vecchissimo ma con i pensieri guizzanti di un ragazzino, acuminati anzi, e proverbialmente umorale. Mi sono incamminata verso Kazimierz, cuore pulsante della comunità ebraica di Cracovia, rimuginando su cosa avrei potuto chiedere io a L’ultimo klezmer, come sono intitolati un libro e un film in suo omaggio.
Superata la soglia della Klezmer Hois, la casa-teatro-rifugio-ristorante dove il cantore riceve gli amici e suona la sua musica a qualsiasi ora, ecco Leopold con i suoi novantatre anni, immobile sulla sua sedia davanti a una tazza di caffè. Senza darmi il tempo di chiedere mi risponde: «Sono nato nell’ex Polonia orientale, nella cittadina di Przemyslany. Da ragazzo avevo sentito parlare parecchio di Kazimierz». Inizia così il racconto dell’aedo, un racconto che mi avrebbe condotto attraverso le arterie del klezmer, in apnea per quattro ore nell’anatomia del dolore. Subito mi mette alla prova, sfogliando un album di primi piani insostenibili per lo sguardo, con una lezione di pura emozione sullo sfondo: la musica è vita. Leopold era il musicista preferito dai nazisti nei campi di Jaktorow e Kurowice, e mentre prende a ricordare l’istinto dell’immedesimazione ci rende vicini con una sorprendente accelerazione: «Io sono le cose che ho vissuto. Ho suonato per i tedeschi ubriachi con le pance che scoppiavano, nudo sul loro banchetto dopo un digiuno di due giorni. Si accendevano le sigarette da una candela conficcata nel mio ano».
Grazie alla sua musica, Leopold ha avuto salva la vita tante volte. «Dovrei avere diversi certificati di nascita. Ho suonato ai vivi, ai morenti, ai morti. Suonavo mentre sparavano alle persone. E se non suonavo, scappavo, portando con me fucile e fisarmonica. Durante un combattimento con le bande naziste ucraine i proiettili mi hanno centrato, conficcandosi nel mio strumento». Nel 1941, in fuga verso la profonda Russia, i tedeschi lo raggiunsero: «Prima di morire chiesi di suonare qualcosa. I miei occhi erano puntati nel buco delle canne dei fucili. Poi il miracolo: non ebbero il coraggio di fucilare la musica».
Per queste sue rinascite Kozłowski ha deciso di ricreare la musica ebraica della Galizia, il klezmer originale: «Hitler ha ucciso un popolo, ma il Signore mi ha lasciato vivere. Ha voluto non far morire quella musica, che ora risuona in tutto il mondo».
Il klezmer di Leopold è tutt’altra cosa rispetto a quanto siamo abituati a identificare come tale. «Non è musica da suonare, è musica per raccontare. Quando ho iniziato a cantarlo qui a Kazimierz, ho sentito le pietre di questo quartiere che hanno ripreso a vivere. L’ho fatto per il sangue di cui si sono imbevute». Kozłowski ha scelto Kazimierz quale seconda casa: «nella prima sono rimaste solo le ossa dei miei genitori e di mio fratello Dolko. Non potrò mai dimenticare il modo in cui lo hanno trucidato. Per questo ho voluto rinascere altrove, in un posto che è diventato la mia shtetl, la mia città».
Il klezmer non si può imparare, nasce da una scintilla divina. «È lui che ha scelto me e non può essere il contrario. Impararlo dagli spartiti è come imparare il sesso seguendo il manuale. La partitura è l’aorta, per suonarlo ci vuole to…to!», questo…questo, esclama battendosi sul cuore.
La mattina scivola in meriggio, i bricchi fanno largo ai piatti della tradizione yiddish. La carpa con mandorle, uva sultanina e gelatina naturale, il brodo di pollo e manzo, con cavolo e una specie di polenta affettata di semola israeliana, il collo d’oca ripieno di fegato e carne di manzo, lo stomaco d’oca con salse di verdure e patate croccanti. Squisitezze commentate da Leopold con aggettivi golosi, mentre si ride e si piange in egual misura. Lo stesso ossimoro di emozioni di cui è innervata la sua musica, nata per accompagnare «scorpacciate di cotolette», ma che in Kozłowski ha trovato la piena espressiva di un lirismo struggente, nemmeno immaginabile nella sua declinazione zingaresca hollywoodiana. La vitalità di quest’uomo piccolo di statura ma così espanso in profondità, la passione irriducibile per le donne giovani e belle, il gusto per le barzellette sconce e per le allegre bevute si mescolano alle lacrime rotonde che piange ogni volta raccontando le sue canzoni. «Parlano di eventi veri, sono dedicate alle persone di Kazimierz. Mi fanno rivivere quello che è successo qui vicino in via Miodowa, ad esempio, dove abitava un calzolaio nel seminterrato. Da lì sentiva tutto quello che accadeva nella parte bassa della strada, la sua gioia era riconoscere le scarpe che aveva riparato dal suono sul selciato. Un giorno udì un rumore diverso, tagliente, di suole che non erano sue… erano le scarpe che lo uccisero».
L’epos delle sue canzoni si confonde con la mitologia personale di questo musicista, scelto da Steven Spielberg quale interprete in Schindler’s list, come anche il violinista Itzhak Perlman. «Quando lo incontrai, tirò subito fuori il suo Stradivari. Il pianoforte accanto a lui aveva l’aria di essere più vecchio di me. Pensavo volesse mettermi alla prova con la musica classica e invece mi chiese di attaccare con quattro battute di una melodia ebraica. Uno sguardo e siamo partiti per un viaggio interno di alcune ore. Anche se non ti sei mai visto prima, nel klezmer ci si conosce da sempre».
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