Il 6 maggio 1976 il Friuli fu scosso da un terremoto che provocò 989 morti, 3.000 feriti e 80.000 sfollati, colpendo in tutto 137 comuni. A settembre dello stesso anno, una seconda scossa colpì nuovamente la regione, provocando altri danni e tragedie. Orcolat, l’orco che secondo la tradizione popolare friulana abita nelle montagne della Carnia, si era risvegliato e poco ci aveva messo per distruggere un tessuto sociale già in difficoltà, così gettato in una gravissima crisi.
Da quelle stesse terre era partito una ventina d’anni prima Leonardo Zanier, sindacalista e poeta del quale Paolo Barcella e Valerio Furneri hanno recentemente ricostruito la vita e l’opera (P. Barcella e V. Furneri, Una vita migrante. Leonardo Zanier, sindacalista e poeta. 1935-2017, Carocci, 2020). Diretto dalla Carnia verso Zurigo come lavoratore specializzato nel 1957 e dopo essere stato protagonista delle lotte politiche e sindacali della comunità italiana emigrata in Svizzera, Zanier si accingeva proprio nel 1976 a tornare in Italia, richiamato dalla Cgil che ne aveva a tal punto apprezzato le capacità dimostrate in territorio elvetico da volerlo a Roma, in qualità di responsabile dell’ufficio studi, formazione e ricerche dell’Ecap nazionale. Il sindacalista friulano si trovava quindi a cambiare nuovamente luogo di vita, ma un filo rosso pareva legarlo indissolubilmente alla sua terra d’origine: «Di fatto, mentre l’Ecap portava Zanier a Roma, il terremoto rapiva la sua attenzione, riconnettendolo fisicamente e mentalmente con la sua terra d’origine» (cit. p. 89).
Zanier aveva dedicato alla sua terra e alla gente che per lavoro la abbandonava poesie e racconti – fondamentale la raccolta Libers… di scugnî lâ, edita per la prima volta nel 1964 e ripubblicata da Garzanti, proprio dopo il terremoto, con un’importante prefazione di Tullio De Mauro – che ora, alla luce di fatti tanto tragici, diventavano una risorsa culturale ed esistenziale per molti. Le sue parole erano in grado di condurre a un’elaborazione della catastrofe in grado di rispondere certo allo smarrimento subitaneo da essa generato, ma anche di mettere in luce le cause profonde di una crisi che andava oltre il terremoto, di suggerire possibili linee guida per una ricostruzione che non riportasse tutto, semplicemente e frettolosamente, allo status quo ante. In questo senso, la poetica di Zanier era in grado di ricoprire una funzione politica essenziale e il terremoto del 1976 fu il catalizzatore che le permise di fare presa, di agire concretamente all’interno di una comunità sia locale che nazionale. Per raccontare all’Italia intera la tragedia del Friuli infatti molti giornali, tra cui il «Corriere della Sera», ripresero le parole di Zanier perché in grado di far provare empatia alle altre regioni della penisola, lontane dai drammi di quella regione e dalla sua storia, con le drammatiche vicende friulane.
Proprio l’occasione del terremoto mostra come Zanier, nella veste di poeta, seppe offrire una prospettiva ampia e generale sulla catastrofe che colpì il Friuli; tale prospettiva d’altra parte era riproposta e messa in pratica dalle concrete azioni che Zanier promosse in quei mesi, azioni in grado di tradursi in interventi particolari, tecnici potremmo dire, nei quali il sindacalista friulano mostrò la sua natura di uomo pragmatico e pratico. Zanier non solo fornì una visione, non solo offrì risposte pragmatiche ai problemi contingenti che si presentarono, ma seppe coniugare i due aspetti, fu in grado insomma, per riprendere categorie weberiane, di far convivere l’«etica dei principi» con quella «della responsabilità». Un aspetto questo che caratterizzò tutta l’attività sindacale di Zanier, sempre affine a principi di area socialista e comunista, ma sempre aperta al dialogo con altre realtà operanti nel suo medesimo campo, un dialogo finalizzato a conseguire risultati concreti, immediati, utili per fare dei passi importanti verso la direzione decisa e delineata.
Un ulteriore ed essenziale lato della personalità di Zanier – che ne sostanzia l’attività poetica e politica – è il suo essere «migrante», nel senso più ampio del termine. La sua vita, piuttosto che una vicenda lineare di emigrazione/immigrazione, fu esperienza migrante in un’accezione totale: partì più volte dalla sua regione per ritornarvi e, anche i periodi più stabili di permanenza all’estero, come il ventennio in Svizzera tra il 1957 e il 1976, non lo portarono mai a separarsi del tutto dalla Carnia; anche in tarda età continuò a viaggiare, a tornare sui suoi passi, a condurre una vita fatta di incontri e relazioni umanamente appaganti. Zanier non si mosse su una linea retta da percorrere in un senso o nell’altro: egli fu piuttosto un’esemplare dimostrazione del carattere circolare, innanzitutto da un punto di vista spaziale e geografico, delle vicende migratorie. Queste infatti non sono quasi mai spostamenti unidirezionali, o meglio, quasi mai presuppongono una precisa direttrice sulla quale muoversi; le migrazioni sono piuttosto processi aperti, in fieri che possono spingersi oltre il punto di destinazione prefigurato, oppure ritornare su di sé e ripiegare sul luogo di partenza. Se non sempre il circolo si chiude da un punto di vista spaziale-geografico, le migrazioni mostrano una più marcata e definita circolarità qualora se ne considerino gli aspetti economici, sociali, culturali, nonché propriamente politici. Zanier fu perfettamente consapevole di tutto ciò e proprio per questo è utile riprendere alcuni significativi aspetti della sua riflessione, maturata attraverso anni di esperienza diretta e di attività sindacale, per illuminare al meglio alcuni caratteri del processo migratorio.
Egli innanzitutto, sin dalle sue prime esperienze sindacali, fu consapevole del carattere strutturalmente «debole» del fenomeno migratorio. Questa debolezza trova una prima realizzazione concreta nella figura del migrante, esposto a contesti di arrivo spesso ostili e indifferenti, interessati alla disponibilità di forza-lavoro a basso costo. Soluzione a questo fu per lui, sin dall’attività come insegnante e formatore professionale presso la scuola di Comeglians, l’istruzione e la professionalizzazione del lavoratore migrante, in modo da aumentare il potere contrattuale dei lavoratori emigrati e di favorire, al tempo stesso, l’integrazione dei migranti nel contesto di arrivo. Un secondo aspetto di debolezza che caratterizza il fenomeno migratorio è l’impoverimento a cui è soggetto il territorio di partenza di tale processo. Tale territorio infatti, spesso economicamente depresso a causa di scelte (o non-scelte) attuate dalle sue classi dirigenti, si trova depauperato del materiale umano, dell’energia e delle conoscenze in grado di condurre l’area verso uno sviluppo equilibrato, non volto al solo profitto, ma che porti a una crescita che sia insieme economica e sociale. Rimediare alla desertificazione socioeconomica e culturale che l’emigrazione porta con sé è per il poeta di Maranzanis una questione complessa, soprattutto di fronte all’atteggiamento della classe dirigente disinteressata di cui si è brevemente detto. Se muovendo dall’alto non pare possibile nell’immediato arrivare a risultati concreti e tangibili, che fare?
La risposta di Zanier è incentrata sul carattere circolare del fenomeno migratorio e porta le due dimensioni di debolezza ora sottolineate a convergere, a ripiegarsi l’una sull’altra. Da una parte i migranti risultano sfruttati nei territori d’arrivo e per rimediare a ciò si deve procedere con azioni di organizzazione della classe lavoratrice emigrata; d’altra parte i territori di partenza sono svuotati di risorse umane e lasciati in balìa delle sordide logiche del profitto: ecco che per risolvere questo secondo aspetto ci si deve rivolgere al primo, fiduciosi che l’esperienza migratoria abbia rappresentato una vicenda formativa per gli emigrati, in grado ora, se a loro viene concessa la possibilità, di tornare alla propria regione d’origine e mettere in pratica qui le conoscenze apprese, rendendo al tempo stesso vive e vivaci le caratteristiche e le tradizioni di un territorio che ben conoscono. Considerare le migrazioni nella loro circolarità, nella loro capacità di essere un processo attraverso il quale si compie il passaggio e il travaso tra culture, conoscenze e tradizioni differenti, permette di concepire la migrazione stessa come un’esperienza formante dalla quale emergono figure che da deboli, sradicate, trascinate verso contesti ostili, diventano attive, forti, capaci di prendere il controllo e risolvere le contraddizioni di quel processo storico in cui sono in prima persona coinvolte.
La risposta di Zanier alle contraddizioni strutturali e alle tragedie umane ed esistenziali che le migrazioni portano con sé è lontana da ogni forma di paternalismo o di pauperismo: i migranti non sono incivili che dobbiamo educare alla nostra civiltà e alla nostra cultura, non sono solo disgraziati che siamo chiamati a soccorrere e aiutare, ma persone in grado di agire, che alle spalle hanno un proprio bagaglio politico-culturale che se attivato può rappresentare la via maestra per l’emancipazione loro e di altri soggetti che vivono in condizione di ingiustizia e sfruttamento. È questo che ci insegna l’esperienza sindacale di Zanier in Svizzera: lì sono stati gli italiani emigrati ad attivarsi, a mettersi nelle condizioni di organizzarsi in modo da rivendicare sempre più potere sociale e politico; è questo che ci trasmette anche la tarda riflessione di Zanier sulle “rimesse sociali”, sulla capacità degli emigrati di inviare non solo contributi economici nelle aree di origine, ma anche di tornare presso di queste per svolgere un concreto e attivo lavoro di ricostruzione socioeconomica.
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