Che cosa è successo nelle urne del Mezzogiorno il 25 settembre scorso, e perché? Le tendenze d’insieme sono ben note. La delusione verso l’esperienza parlamentare del Movimento 5 Stelle e la mancanza di una offerta politica alternativa convincente, tanto a destra quanto, ancor più, a sinistra, ha determinato un forte aumento dell’astensionismo al Sud.
Proviamo a leggere i dati elettorali, partendo non dalle percentuali dei voti espressi, ma dai numeri assoluti, dai comportamenti degli elettori e delle elettrici del Sud, oltre 16 milioni e duecentomila persone. Un aggregato, è bene non dimenticarlo mai, molto grande.
Se si pone pari a 100 il numero degli elettori meridionali al 2022 e si arrotondano le cifre, si fanno alcune scoperte interessanti. Emerge in primo luogo che circa 48 non hanno espresso un voto valido: in misura nettamente prevalente non recandosi al seggio (45), in misura accessoria (3) depositando una scheda bianca o nulla. Questo insieme di comportamenti riguardava 35 elettori su 100 nel 2018; ciò significa che una fetta consistente dell’elettorato meridionale, pari a circa un settimo del totale (48-35=13), ha deciso di non rinnovare la propria fiducia alla lista elettorale votata nel 2018 e di non esprimerla per nessun altro. Presumibilmente – anche se è necessaria sempre grande cautela nel desumere flussi elettorali dal mero confronto del comportamento a due date diverse – si è trattato di ex elettori del M5S. Livelli così alti di non-voto pongono un grandissimo problema di scollamento, di mancanza di rappresentanza, fra i cittadini del Mezzogiorno e la politica in generale, e con le forze di governo in particolare. Un problema più rilevante che nel resto del Paese. Se al Sud 48 elettori su 100 non esprimono un voto valido, al Centro Nord sono 34. I livelli assoluti dell’astensionismo non devono però nascondere che la tendenza al suo aumento ha la stessa forza nelle due grandi circoscrizioni del Paese: se al Sud il numero degli astenuti (escluse le bianche e nulle) cresce del 33% (da 5,4 a 7,3 milioni), al Centro Nord aumenta del 31% (da 7,1 a 9,4 milioni): una differenza che ci pare marginale.
Ma per chi esprimono le loro preferenze? Nel 2018 ben 30 elettori del Sud su 100 avevano votato per i 5 Stelle, nel 2022 il loro numero si è dimezzato, passando a 15. Al Centro Nord erano già molti meno allora e sono molti meno anche oggi, solo 6 su 100. Vi è di più: il generale tracollo del voto per il Movimento è stato un po’ più contenuto nel Mezzogiorno: rispetto al 2018 i Pentastellati perdono poco più di metà dei propri voti al Sud e oltre il 60% nel resto del Paese. Resiste ancora, quindi, una loro maggiore capacità di rappresentanza dell’elettorato meridionale. Nel dibattito post-voto si è assistito a una diffusa banalizzazione di questa circostanza, collegando il comportamento elettorale al numero di percettori del reddito di cittadinanza. Banalizzazione estremamente rozza: si pensi che il grafico più citato, pubblicato su un quotidiano economico nazionale, rapportava i voti espressi dai cittadini maggiorenni, al numero di beneficiari (inclusi i minorenni), pur di mostrare una somiglianza fra i valori assoluti. E certamente interessata, spinta dalle forze politiche, della destra e renziane, accomunate dall’intenzione di abolire il reddito di cittadinanza per mettere le mani su un ampio pacchetto di risorse correnti da destinare ad altri gruppi di interesse ben più importanti, nella loro visione, dei poveri. Discussione che certifica ancora una volta il permanente atteggiamento di disprezzo di fasce, temiamo ampie, delle classi dirigenti nazionali verso ciò che accade al Sud.
Il voto per il centrosinistra (sommando Pd, alleanza Verdi-Sinistra italiana e Leu per il 2018) è invece sensibilmente diminuito, passando da circa 11 elettori su 100 nel 2018 a meno di 9: un altro dato di una certa rilevanza, visto che ormai pochissimi meridionali hanno ritenuto di dare la propria fiducia alle liste formatesi intorno al partito teoricamente erede, sia pure a grande distanza di tempo, del voto per il Pci e per una parte non irrilevante della Dc. Anche questo dato mostra una marcata differenza con il Centro Nord nei livelli: lì il voto per il centrosinistra ha riguardato a settembre 17 elettori su 100. Specularmente a quanto avvenuto per i 5 Stelle, le tendenze sono un po’ diverse: al Sud il centrosinistra perde il 19% dei voti rispetto al 2018: solo il 10% al Centro Nord, a conferma dell’ormai storico divorzio fra la sinistra e il Mezzogiorno. D’altra parte, disparità sociali e disparità territoriali sono due facce della stessa medaglia, dato che le regioni a minor reddito medio sono anche quelle in cui la quota di popolazione meno abbiente è maggiore. Dato il disinteresse, culturale e politico, della sinistra per le disuguaglianze fra le persone, sarebbe stato sorprendente un suo impegno per i temi delle disuguaglianze fra i luoghi e quindi una sua azione per lo sviluppo del Sud. E questo è ormai ben evidente ai cittadini del Mezzogiorno.
Contrariamente a quanto si potrebbe dedurre dal numero dei parlamentari, fortemente cresciuto a causa del meccanismo elettorale e della decisione suicida del Partito democratico di non rinnovare, neanche tatticamente, la collaborazione già sperimentata nel governo Conte II con il M5S, i voti in favore dello schieramento di destra (ottenuti sommando Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega) sono solo marginalmente cresciuti.
Quattro elettori meridionali su cinque, una proporzione altissima, che non ha precedenti in passato, non hanno votato per la coalizione vincitrice, non sono saliti sul carro del sicuro vincitore
Tornando ai nostri 100 elettori meridionali, se nel 2018 poco più di 18 su 100 avevano votato per la destra, quattro anni dopo sono divenuti solo poco più di 19. Qui c’è una sensibile differenza con il resto del Paese: su 100 elettori del Centro Nord ben 30 hanno votato per la destra. Ma, come nel caso dei 5 Stelle, questo scaturisce da livelli di consenso già molto diversi quattro anni prima e non da tendenze emergenti. I voti per la coalizione di destra al Sud aumentano di circa il 3% e al Centro Nord intorno al 2%. Come noto, essa vince, e acquisisce una salda maggioranza di seggi, assai più per demerito dell’avversario (calo dei consensi e mancata alleanza) che per “meriti”, cioè per nuovi voti, propri. L’offerta elettorale della destra non sfonda certamente al Sud, dove l’elettorato era divenuto nelle ultime elezioni politiche molto più mobile che nel resto del Paese. In conseguenza di questo l’Italia viene quindi governata da una coalizione per la quale ha votato meno di un elettore meridionale su cinque. Quattro elettori meridionali su cinque, una proporzione altissima, che non ha precedenti in passato, non hanno votato per la coalizione vincitrice, non sono saliti sul carro del sicuro vincitore. Il Mezzogiorno appare quindi, più che in passato, all’opposizione.
Complessivamente, al Sud le forze politiche classificabili con certezza come opposizioni (M5S e centrosinistra) hanno ottenuto il 45,4% dei voti validi contro il 37,2% della destra. Percentuali che si invertono al Centro Nord: 35% contro 45,4%. In molti dei collegi elettorali del Sud (assai più che nel resto del Paese), la somma dei voti del M5S e del centrosinistra supera quelli della destra. Certo, il calcolo richiede cautela interpretativa: nulla garantisce che un unico candidato uninominale avrebbe ottenuto i voti di entrambi gli elettorati; così come non si può escludere che forti candidati comuni espressioni delle realtà locali avrebbero potuto anche motivare qualche astenuto. Non sappiamo. Ma è possibile ipotizzare che l’esito elettorale in termini di seggi, nel Mezzogiorno avrebbe potuto essere significativamente diverso, con la stessa offerta politica.
A completare il quadro, 9 meridionali su 100 (quindi un po’ più di quelli che hanno votato per il centrosinistra) hanno dato fiducia ad altre liste, inclusa l’alleanza Calenda-Renzi (per la quale hanno votato meno di 3), con un incremento rispetto al 2018. Non è emersa al Sud una nuova offerta elettorale diversa dalle precedenti: solo in Sicilia è cresciuto un po’ meno l’astensionismo e sono cresciute un po’ di più le “altre liste”, con particolare riferimento al successo del movimento guidato dall’ex sindaco di Messina (che ha eletto anche alcuni parlamentari); va tenuto presente che in quel caso si votava anche per le regionali. Nel resto del Paese il peso delle altre liste è maggiore (13 elettori su 100) sia per un migliore risultato di Calenda-Renzi sia per la storica rilevanza delle formazioni autonomiste in alcune aree.
Il voto al Sud si inserisce appieno in tendenze nazionali di insieme, dall’incremento dell’astensionismo, alla forte riduzione dei voti per il M5S, alle difficoltà del centrosinistra
Complessivamente, il voto al Sud si inserisce appieno in tendenze nazionali di insieme, dall’incremento dell’astensionismo, alla forte riduzione dei voti per il M5S, alle difficoltà del centrosinistra. Le differenze territoriali, appena ricordate e sensibili, sembrano infatti consolidare scarti già visibili con i dati del 2018. Pare di poter concludere che in tutto il Paese l’elettore che non si è sentito rappresentato ha teso a disertare le urne; ma al Sud il maggior peso del non voto già al 2018 rende del tutto patologica la dimensione dell’astensione: come si è detto, ormai 48 elettori su 100. Naturalmente anche gli oltre 34 del Centro Nord fanno suonare un forte campanello dall’allarme. Al Sud ha un po’ limitato il proprio tracollo il M5S, che partiva più in alto ed è sceso un po’ meno; mentre la destra non è particolarmente cresciuta e il centrosinistra ha accentuato il suo storico declino.
Il voto nasconde una pluralità di ragioni connesse tanto alle condizioni socioeconomiche degli elettori e al loro giudizio sulle politiche pubbliche, ossia a fattori dal lato della “domanda” politica, quanto alla configurazione del sistema politico e dei partiti, ovvero a fattori di “offerta”. Il trionfo elettorale del M5S nel Mezzogiorno veniva interpretato (v. G. Viesti, La vendetta delle regioni che non contano, “il Mulino”, n. 3/2018 e in D. Cersosimo e G. Viesti, Voto da abbandono. L’egemonia del M5S nel Mezzogiorno nel 2018, in C. Fumagalli e V. Ottonelli (a cura di), Come votiamo, Fondazione Feltrinelli, 2022) soprattutto con ragioni attinenti alla domanda, alla “geografia del malcontento” sociale ed economico; i meridionali, in altri termini, nel 2018, richiamando una famosa struttura concettuale di Albert Hirschman, anziché rifugiarsi nell’”exit” dell’astensione, della sfiducia e del disinteresse, avrebbero preferito la “voice”, il desiderio di dire la propria sulle condizioni di abbandono del Sud e sull’assenza di qualsiasi prospettiva di cambiamento futuro, votando contro i partiti di maggioranza e di minoranza, e dando il consenso a un movimento considerato eccentrico e alternativo. Dunque, innanzitutto un voto di razionale protesta contro coloro che venivano identificati come gli artefici della marginalizzazione sociale ed economica del Sud, contro politiche pubbliche che avevano penalizzato il Mezzogiorno, contro la mancanza di qualsiasi ragionevole profezia di un futuro migliore da parte delle élite politiche nazionali.
Se, come riteniamo, quella interpretazione resta ancora valida, i dati del 2022 ci segnalano una preoccupante crescita dell’”exit”, dovuta al persistere delle stesse condizioni di domanda e da un peggioramento della qualità percepita dell’offerta, soprattutto nei 5 Stelle ma anche nel centrosinistra, espressa da 7.749.549 elettori italiani residenti nel Mezzogiorno. Una delle principali sfide per il sistema politico italiano per la nuova legislatura. Soprattutto per le opposizioni, per le quali è impossibile, matematicamente e politicamente, immaginare qualsiasi futuro successo senza provare a recuperare, almeno in parte, quei voti.
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