È nota la scarsa educazione finanziaria dei giovani italiani: dai dati Pisa per il 2012 di fonte Ocse, su 18 Paesi l’Italia precede solo la Colombia. Da parecchi anni sono stati lanciate diverse iniziative per migliorare la situazione, anche prevedendo corsi nell’ambito dei curricula scolastici (e se ne parla anche nel documento sulla Buona Scuola). Come ogni buon educatore sa, l’esempio virtuoso è la molla principale per sollecitare l’emulazione. Purtroppo, esempi recentissimi, da interviste in programmi televisivi e radiofoniche o sulla stampa, fino a documenti governativi vanno nel #versocontrario. Preoccupa ulteriormente che gli esempi vengano da chi prende, o concorre a prendere, decisioni su scelte di politica economica.
Dichiara il presidente del Consiglio Matteo Renzi l’11 ottobre 2015 in un’intervista con Fabio Fazio (al 19^ minuto), ripetendo peraltro lo stesso concetto già espresso alla fine del semestre di presidenza italiano dell’Ue, che gli italiani avrebbero aumentato i risparmi bancari da 3.500 a 3.900 miliardi di euro tra il 2012 e il 2014. Il fenomeno viene interpretato come “denaro nascosto in banca” per la scarsa fiducia trasmessa dai politici; se ci fosse fiducia, invece, secondo Renzi verrebbe speso, favorendo così la crescita. Quanto dichiara il presidente Renzi contrasta con quanto emerge dai conti finanziari della Banca d’Italia.
I circa 3.500 e 3.900 miliardi di euro in risparmi “bancari” tra il 2012 e il 2014 possono riferirsi solo al valore delle attività finanziarie complessive delle famiglie a fine 2011 e a fine 2014, rispettivamente (Relazione Annuale della Banca d’Italia, tav. 7.4). Comprendono depositi bancari e postali, titoli di Stato, azioni, fondi comuni, fondi pensione, assicurazioni, Tfr, crediti commerciali; nel triennio, i depositi bancari e postali sono rimasti fermi a circa 1.000 miliardi. L’andamento del valore delle attività finanziarie dipende sia dai nuovi investimenti che soprattutto da guadagni e perdite in conto capitale, come mostrato nell’ultima pubblicazione annuale sulla ricchezza delle famiglie della Banca d’Italia (Fig.2). La connessione con i risparmi finanziari è dunque parziale, perché questi sono pari agli investimenti meno la variazione dei debiti. In effetti, sommando per i tre anni, i risparmi superano di poco gli 80 miliardi, a fronte di un incremento di 400 del valore delle attività finanziarie e della ricchezza finanziaria (attività finanziarie totali meno debiti, da 2.600 a fine 2011 a 3.000 miliardi a fine 2014).
Dichiara Maurizio Lupi a «la Repubblica» del 14 ottobre scorso, motivando il consenso alla proposta di innalzamento della soglia dei pagamenti in contante da 1.000 a 3.000 euro: “Ma lo sa che in 15 milioni non hanno neanche il conto corrente?". La tesi, per la prima volta avanzata in un comunicato dell’ufficio studi della Cgia di Mestre del 15 maggio 2013, e ripetuta in uno del 14 ottobre 2015, è che nel 2012 a tanto ammonterebbero gli italiani ultraquindicenni unbanked (secondo il deleterio ma diffuso costume di usare termini inglesi anche quando non necessario). Si tratta di una tesi priva di fondamento. Un semplice controllo sulla fonte da cui la Cgia poteva aver tratto le informazioni originarie (nelle elaborazioni non sono riportati riferimenti bibliografici o sitografici) riconduce al grafico di un documento della Commissione europea. Lo studio si basa sui dati, riferiti al 2011, della prima indagine triennale della Banca Mondiale sulla quota di ultraquindicenni con accesso a mezzi di pagamento diversi dal contante (conti correnti bancari e postali, carte di credito e di debito; banca dati Global Findex). Il dato relativo all’Italia è del 71%; la quota di chi è senza accesso sarebbe quindi il 29% applicato dalla Cgia sulla popolazione italiana con oltre 15 anni nel 2012 per ottenere i quasi 15 milioni di unbanked. Il risultato di una indagine telefonica tra circa 1.000 famiglie in ciascuno dei 160 Paesi contrasta nettamente con quello, ben più solido statisticamente e disponibile al momento dell’elaborazione Cgia, del quasi l’86% delle famiglie che dichiara di avere un conto corrente bancario o postale nell’indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia per il 2010, Tav. F2. In effetti, anche nei dati per il 2014 della seconda indagine della Banca Mondiale, la percentuale per l’Italia balza all’87% (e quindi, anche accettando il metodo Cgia, gli unbanked si ridurrebbero a meno di 7 milioni).
Nella Relazione illustrativa della Legge di stabilità per il 2016, art. 46, a conforto dell’innalzamento della soglia dell’uso del contante a 3.000 euro si cita uno studio, sempre della Cgia di Mestre, secondo cui nel 2014 la massa monetaria complessiva ha sfiorato i 164,5 miliardi di euro e il ricorso frequente all’utilizzo del contante è da correlarsi, tra l’altro, all’elevata percentuale di soggetti unbanked, ossia soggetti estranei al circuito degli intermediari abilitati. È lo stesso studio del 14 ottobre 2015, che oltre alla tesi errata sul numero degli unbanked riporta già nel titolo del documento che “nel 2014 la massa monetaria circolante ha sfiorato i 165 miliardi (+30% rispetto al 2008)”. Questo risultato non ha alcun significato ai fini della tesi che implicitamente si vuole sostenere e che trova evidentemente consenso anche negli ambienti governativi, tanto da essere citata nella relazione illustrativa.
Il dato di 165 miliardi di massa monetaria circolante in Italia nel 2014 è quello delle “banconote in circolazione” nel passivo dello stato patrimoniale della Banca d’Italia (Relazione annuale, p. 174). Ciò non vuol dire che questo rappresenti l’effettivo ammontare di banconote utilizzate in Italia. Sarebbe ben strano che una tale informazione fosse disponibile per ciascun paese di una unione monetaria. Una semplice lettura a p. 189 delle note metodologiche nell’Appendice alla stessa Relazione informa della convenzione contabile per cui il totale delle banconote in euro è allocato per l’8% nel bilancio della Bce e il restante 92 in proporzione alla partecipazione al capitale della Bce delle banche centrali nazionali dei Paesi nell’Uem (12,3% la quota della Banca d’Italia, pari appunto a 165 miliardi).
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