Ormai da tempo la teoria economica attribuisce alla pressione concorrenziale un ruolo propulsivo nel migliorare le performance del sistema produttivo. Si è, così, diffusa la consapevolezza della necessità di massicce dosi di concorrenza in un Paese dove in molti ricordano con nostalgia le mitiche «lenzuolate», all’epoca ritenute addirittura troppo timide. Ma nel ragionare di concorrenza non andrebbe mai dimenticato che il primo fattore distorsivo della concorrenza è l’illegalità; se il rispetto delle regole diventa una variabile dipendente dalla valutazione di convenienza si generano vantaggi occulti e, al tempo stesso, squilibri evidenti nella allocazioni di risorse. Anche Confindustria, nel progetto «Italia 2015» premette a tutte le sue numerose proposte di riforma una solenne dichiarazione, secondo cui «il Paese deve fare della legalità il suo punto di forza, un vero e proprio marchio di qualità, per attrarre investimenti dall’estero e facilitare il processo di crescita e di internazionalizzazione delle imprese italiane».
In un articolo che verrà pubblicato sul prossimo numero del «Mulino», cerco di analizzare come le scelte di regolamentazione in materia di diritto dell’impresa possano dare un contributo alla crescita dimensionale delle imprese e come anche i fenomeni di illegalità pesino e incidano notevolmente sulle capacità e potenzialità di sviluppo dell’apparato produttivo.Sicuramente vi sono aree, come la riforma della giustizia civile, sulle quali interventi con adeguate risorse sono necessari, anche se, detto per inciso, in un momento in cui si tenta di nascondere in un provvedimento dedicato alla stabilità finanziaria una revisione del codice di procedura civile unicamente per evitare al presidente del Consiglio il risarcimento dei danni a carico della sua azienda, non dobbiamo aspettarci una classe dirigente dotata della necessaria lungimiranza per affrontare con equilibrio una strategia coerente su questo terreno.
C’è però un altro aspetto con connotati, utilizzando per ragioni di sintesi una espressione generica, più “culturali” che cerco di sottolineare.
Il nostro ordinamento in ragione della diffusissima presenza di piccole e medie imprese, riserva a queste regole meno onerose e più leggere per alleggerire i costi che una disciplina più complessa comporta. Mi chiedo se questa scelta sia veramente funzionale alla crescita. Occorre valutare ad esempio se per favorire l’accesso ai mercati finanziarti delle piccole imprese sia opportuno introdurre norme di favore in materia di trasparenza o di rispetto di determinati requisiti di governance, elementi questi fondamentali per attrarre gli investitori giustamente spaventati dall’opacità e dalla debolezza (per usare un eufemismo) di molte strutture organizzative a carattere prevalentemente familiare. E se queste norme non finiscano con il rappresentare un segnale di un doppio binario regolamentare che, se male interpretato, può legittimare comportamenti poco virtuosi che andrebbero al contrario disincentivati.
Domande che presuppongono maggiori approfondimenti e che, ovviamente, non hanno la pretesa di esaurire le numerose e complesse sfaccettature del lungo cammino per il recupero della legalità, ma che, quantomeno possono indicare, sul piano del metodo una nuova direzione sulla quale riflettere.
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