L’America. Ne parliamo sempre al singolare, la way of life dell’America, il bellicismo dell’America, il consumismo dell’America; ma non c’è nulla più delle primarie che ci aiuti a capire quanto gli Stati Uniti (guarda caso un plurale!) siano diversificati e disomogenei: un geyser eruttivo che a brevi intervalli esplode. Se sembra il contrario è che a contenere quel subbuglio vi è un nazionalismo messianico, vera religione in cui hanno riparo tutti gli interessi di un capitalismo radicale. Nazionalismo e capitalismo paiono rendere uno un Paese che è tutto tranne che uniforme.
Le primarie sono democrazia dal basso, però retta da un intrico di leggi statali diverse fra loro e di regolamenti di partito mai uguali. In alcuni Stati occorre dichiararsi in anticipo elettori di un partito, in altri si può scegliere il giorno stesso dell’elezione, i delegati dello Stato alla Convenzione nazionale possono andare tutti al vincitore o essere divisi in proporzione ai voti presi dai candidati.
Poi ci sono i caucus, come in Iowa, dove gli elettori di un partito si riuniscono in una miriade di sedi, discutono e votano; ma in quelli Democratici dell’Iowa non si vota, ci si divide in gruppi di sostenitori e con un complicato sistema vengono assegnati ai candidati non voti, ma cifre di «delegati equivalenti». Vi è anche un livello nazionale tutto mediatico, spasmodicamente attento alle tambureggianti public opinion polls e a ogni mossa dei candidati, esaltati o abbattuti come in una speculazione di borsa al rialzo o al ribasso. Ne deriva che le primarie di piccoli Stati come lo Iowa (3.000.000 circa di abitanti) o il New Hampshire (neppure 1.500.000) assumono un’importanza politica al di là del numero di delegati nazionali in gioco; mentre le loro peculiarità – gli evangelici del primo, gli indipendenti del secondo – diventano anticipazioni di come si potranno muovere i grandi blocchi etnici, geografici, di classe, di genere, di età del paese.
I risultati di Iowa e New Hampshire indicano che il geyser americano si è rimesso in moto. Era già successo nel 1980 e si era ripetuto nel 2000 con la rivoluzione neoconservatrice di Reagan e quella del conservatorismo compassionevole di Bush jr., aiutate dal trionfale ritorno sulla scena politica dei cristiani evangelici. Una rivoluzione che aveva seppellito gli anni Sessanta ed esaltato il capitalismo liberista; ma il cui fervore fideistico era stato virato dalle classi dirigenti dei partiti a favore, con accenti diversi, degli interessi delle rispettive élite, l’establishment. I due candidati che si impongono oggi all’attenzione, Donald Trump e Bernie Sanders, sono, si sa, due insurgents, espressione della rivolta contro l’establishment accusato di corruzione, quindi di avere gestito a favore delle élite la crisi economica e, infine, di aver tradito la grandezza dell’America con guerre come quella dell’Iraq o con l’incapacità di far fronte a Putin e al radicalismo islamico.
Trump e Sanders cercano la nomination dei due partiti storici chiamandosi al tempo stesso fuori dalla loro classe dirigente e intendono esprimere le istanze contraddittorie che ribollono nella pancia del Paese. Socialista l’uno, conservatore l’altro, in realtà newdealista il primo e per nulla conservatore agli occhi degli ideologi repubblicani il secondo. Li si definisce populisti, un termine che sta fra lo stupido e il romantico, ma che indica qualcosa di pericoloso. E il pericolo esiste. È nella rivolta dei tanti giovani chiusi in lavori sottoremunerati e schiacciati dai debiti contratti per poter studiare. È nelle masse di lavoratori part-time non solo delle minoranze etniche che con due o tre impieghi vanno avanti a stento. È in una classe media che non ce la fa a mantenere gli standard di vita di un tempo e le cui fasce più deboli rischiano di precipitare nella povertà. È nei latino, arrabbiati per l’emarginazione e la minaccia di espulsione di milioni di illegali; ma anche nei tanti fra le tute blu e gli anziani che temono la contaminazione etnica e culturale dell’America bianca. È nei molti che vedono il baratro della corruzione morale nell’accettazione dei gay, dell’aborto o della crescente visione laica della vita. È nei nazionalisti profetici che temono l’America diventi una nazione come le altre, incerta, divisa, incapace di imporre la sua libertà a un mondo asservito. Tutti sono in rivolta contro le classi dirigenti.
È per questa rivolta che Hillary Clinton pare falsa, manovriera, legata ai peggiori interessi e ai supponenti wine Democrats intellettuali sia da tante donne che dai beer Democrats, i lavoratori che votavano Obama. Così come non sfondano i candidati dell’establishment repubblicano quale Jeb Bush. Sfondano, invece, i candidati che appaiono «veri», che sfidano il politically correct di entrambi i partiti. Sanders osa dirsi «socialista», una bestemmia quasi da sempre, Trump afferma che potrebbe sparare a qualcuno in mezzo alla Quinta Strada senza perdere un voto perché lui è true, autentico. E al momento non ne perde, come non ne perde Sanders. Probabilmente l’establishment riprenderà il controllo quando si passerà agli Stati più rappresentativi, forse la Clinton e un Kasich o un Rubio riusciranno ad agganciare alcune delle istanze della pancia del Paese. Quel che appare certo è che gli Stati Uniti sono spaccati perché sono nel vortice di trasformazioni epocali e a queste – accettandole o domandole – le elezioni presidenziali dovranno dare risposta.
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