Da una parte la demografia galoppante dell’Africa ma soprattutto il cambiamento dei suoi giovani che sentono il diritto di spostarsi come inalienabile. Vogliono un futuro migliore e cercano di afferrare con tutti i mezzi possibili la “loro parte” delle opportunità nella globalizzazione. Anche a rischio della vita. È una forma di “intrapresa individuale”, di investimento sul futuro. Niente può trattenerli, sanno che il mondo è anche loro. Dall’altra parte l’Europa: un mondo invecchiato e più impaurito, chiuso nel proprio benessere ma anche spaventato e colpito dal declassamento sociale, dalla diminuzione del Welfare e dalla mancanza di lavoro. Tutti lo sanno: se non c’è abbastanza lavoro è per la nuova redistribuzione della ricchezza e per l’innovazione tecnologica. Non potendo prendersela con la tecnologia, la reazione rabbiosa si concentra verso l’ultimo arrivato. Non vogliamo nessuno – si dice – non c’è spazio, la “barca è piena” come sostenevano gli svizzeri durante la seconda guerra mondiale respingendo ebrei…

La politica si adatta, si appiattisce senza colpi d’ala. Non si cercano soluzioni ma si annunciano apocalissi demografiche. Tutti parlano di “invasione” ma nessuno di integrazione, che è il nostro vero problema. A Bruxelles gli emendamenti al Trattato di Dublino – che disciplina le migrazioni e la concessione dei permessi – vanno verso l’indurimento. L’Italia ha posto il veto su un testo che costringeva il richiedente asilo di rimanere fino a 10 anni nel Paese di primo approdo: una follia.

Il nuovo governo italiano fa sentire la voce dello scontento italiano verso i partner che ci hanno riempiti di complimenti ma non hanno mosso un dito. È scandaloso che una decisione del Consiglio (la relocation) non sia stata applicata senza conseguenze. Inutile girarci attorno: l’Unione ha perso credibilità. La politica migratoria italiana resta sostanzialmente la stessa: lavorare in Libia (e coi Paesi di origine e transito) per trattenere; limitare l’operatività delle Ong in mare; riprovare coi rimpatri.

Il tono però è cambiato: prima lo si faceva tenendo conto del “bon ton” internazionale, senza esacerbare le divergenze. Le critiche si facevano in privato, ora apertamente. Lo choc delle passioni potrebbe essere deflagrante. La polemica politica interna ora aggredisce le relazioni esterne. D’altra parte anche ai commissari Ue o al presidente Juncker, ogni tanto sfuggono commenti che mettono in luce i loro enormi pregiudizi. Dovremmo stare attenti: le parole sono pietre e alla fine colpiscono tutti. Vittimismi uno contro l’altro armati non portano a nessun risultato. Una delle caratteristiche del “metodo europeo” è ridurre i problemi a procedure e regole: si fa apposta per raffreddare i bollenti spiriti nazionali, sempre all’erta. È stata e rimane una scelta politica.

I “sovranismi” non sono tutti uguali né potranno mai allearsi. Le loro agende sono confliggenti: nessuno vuole aiutare l’altro o partecipare ai suoi sforzi: è lo sterile choc degli egoismi. Non esiste in natura (cioè in politica) una “alleanza dei sovranismi”: se sono sovranismi sono istintivamente contrapposti. Se invece si negozia – foss’anche da posizioni più dure – allora non si tratta di sovranismi ma di legittima strategia negoziale. Tutta un’altra cosa.

Certamente l’Italia ha ragione quando sostiene che nessuno l’ha aiutata in questi anni, a parte il lip service complimentoso, divenuto davvero fastidioso. D’altra parte scontrarsi e insultarsi a vicenda non porterà a nessuna soluzione. Le contese europee di questi giorni sono purtroppo tutte improntate a ragioni di politica interna. Questo rende lo scenario preoccupante: con l’inerzia della quotidianità, l’agenda interna tende ad “accecare” e a dirottare quella delle relazioni internazionali, pur essenziale.

I governi devono trovare un equilibrio nuovo tra esigenze interne, più pressanti, e relazioni esterne, comunque vitali: una nuova architettura di dialogo. Quest’ultimo non è mai un “embrassons-nous” facile: è trattativa, fatica, pazienza, ascolto, mediazione. Dialogare non significa mai arrendersi ma trovare il giusto compromesso. Se si strappa il velo delle buone maniere, che talvolta cela anche l’ipocrisia, si ottiene solo un ambito di negoziato più aspro. Non conviene.

Ciò accade soprattutto ora, un tempo in cui le emozioni sono così importanti. Si parla di percezione della realtà piuttosto che di realtà dei fatti. “Percepire più che capire”: tale è il leitmotiv attuale. Sembra che la percezione vada oltre la comprensione e sia più veritiera: intuisca il “non detto”, anticipi l’occultato, richiami il rimosso. Uomini politici più abili nel “sentire” lo spirito del tempo e meno ingessati nei riti della politica, ne fanno la loro condotta. Ma una volta strappato il velo del politicamente corretto, la difficoltà sta poi nel creare un nuovo binario in cui canalizzare bisogni e risposte. Altrimenti si perde il controllo.

Da sempre il vero compito degli “homines novi” è proprio tale costruzione. Non è sufficiente evidenziare la contrapposizione e cavalcarla: occorre il talento di una nuova sintesi. In parole povere: chiudere porti e/o respingersi migranti a vicenda; lasciarli in balia di libici e/o schiavisti; far finta che l’Africa non esista: ciò rappresenta un nuovo quadro politico? Non sembra proprio, non regge e non ha prospettiva, troppo schiacciato sul qui ed ora, troppo elettoralmente condizionato.

La risposta non è facile. Se ci si attesta sulla linea emergenziale si mettono a rischio i valori fondamentali della democrazia, del diritto occidentale, delle libertà. Tali principi sono validi in quanto universali, cioè per tutti e non per qualcuno soltanto. Neppure si può cancellare il fatto che nel più profondo, alla radice del sentimento popolare, vi è sempre iscritta un’esigenza di pace: la gente semplice (la “povera gente” di La Pira) si somiglia ovunque e non odia nessuno. La gente semplice, se scorge il bisogno non dice mai “tutti sono troppi”.

L’Europa ha già in passato perso il controllo di sé in molte occasioni. Le polemiche sui migranti non sono nuove: la stessa scena della nave Aquarius l’abbiamo già vista nel 2009, nel 2010, nel 2013. Ciò che più importa è che al fondo delle controversie attuali esiste un tema ricorrente nella storia europea: la questione della cittadinanza. Da secoli in maniera periodica i popoli europei si chiedono quale sia la qualità (o le qualità) per far parte della propria comunità nazionale. Ci sono biblioteche su tale indagine e sulle possibili risposte: per scelta, legge, diritto, etnia, razza, cultura, lingua, storia comune, terra, usi e costumi ecc. La discussione sull’identità è questa: come si forma un’identità? Può mai dirsi definitiva?

Tale dibattito è ciclico e si riaccende virulento ogni qualvolta l’Europa subisce una fase lunga di crisi economica. Sono periodi di tempo in cui si sopportano meno “nuovi arrivi” o “nuovi apporti”, in specie se diversi. Sappiamo che su tale assillo hanno lavorato varie correnti ideologiche e numerose scuole di pensiero. L’importante è non trascinare mai il dibattito fuori dal quadro delle nostre conquiste giuridiche occidentali. Per noi i diritti sono universali, il valore supremo è la persona e la sua libertà, la responsabilità è sempre personale e mai collettiva, ogni giudizio necessita garanzie, il rispetto della “rule of law” e dello stato di diritto sono fondamentali. Per questo chiediamo a tutti di adeguarvisi.

Tra quadro giuridico e costituzionale delle leggi da un lato, ed emozioni, paure e percezioni dall’altro, sembra che vi debba essere per forza conflitto. Non è così. Le leggi e le costituzioni servono proprio a ordinare ciò che non lo è, senza tradirlo e senza travalicarlo. È questo il risultato di tanti secoli di riflessione e maturazione che incalzano la storia, la interpretano e la riordinano alla luce di una sempre nuova coscienza e di nuove consapevolezze.

L’Unione europea, malgrado tutti i difetti, è la depositaria di tale tradizione giuridica euro-occidentale. I Trattati dell’Unione – i cui originali sono depositati e visibili alla Farnesina – sono complicatissimi, è vero, quasi illeggibili senza aiuto. Eppure contengono il distillato della nostra tradizione che ha avuto molte svolte nel corso della storia. In questo senso l’Ue è un superpower giuridico e normativo: garanzie di libertà e di diritti per tutti. È quello il luogo vero delle battaglie dell’Italia, il centro dove far valere le proprie ragioni. Una scorciatoia non c’è.

 

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