“Oggi annuncio che non mi ricandiderò alla rielezione e che il mio mandato come premier si concluderà entro il 7 febbraio. Questi sono stati i cinque anni e mezzo più appaganti della mia vita, ma hanno avuto anche le loro sfide. […] Ma non me ne vado perché è stato difficile. Se fosse stato così, probabilmente avrei lasciato il lavoro dopo due mesi. Me ne vado, perché a un ruolo così privilegiato è connessa una grande responsabilità. Quella di sapere se sei o no la persona giusta alla guida. So quale impegno richiede questo incarico. E so che non ho più abbastanza energie per ricoprirlo come si deve. È così semplice”.

È con queste parole che il 19 gennaio Jacinda Ardern ha posto fine – tra lo sconcerto dei suoi connazionali e lo stupore del mondo intero – al suo incarico di prima ministra della Nuova Zelanda, in anticipo di nove mesi rispetto alla scadenza del secondo mandato.

Era arrivata alla guida di un governo di coalizione nell’ottobre del 2017, con un successo inaspettato, solo pochi mesi dopo aver ricevuto all’unanimità l’incarico di leader del Partito laburista, allora all’opposizione, a seguito delle dimissioni del suo predecessore per i sondaggi in drastico calo del partito. Il suo incarico aveva suscitato fin da subito l’attenzione dei media internazionali, perché con i suoi 37 anni era la più giovane premier donna al mondo. Il suo nome era tornato a circolare l’anno successivo, quando aveva partecipato alla riunione dell’Assemblea Generale dell’Onu a New York con la figlia nata pochi mesi prima.

Nel suo primo mandato come premier, Jacinda Ardern si è trovata in pochi anni ad affrontare situazioni di estrema drammaticità, dalla Strage di Christchurch, il più grave attentato terroristico nella storia della Nuova Zelanda, ad opera di un suprematista bianco nei confronti di due moschee, all’eruzione vulcanica di White Island nel pieno della stagione turistica, fino alla pandemia di Covid-19. E in ognuno di questi frangenti ha dato prova di sapersi muovere con determinazione e incisività, dimostrando al contempo una capacità di empatia non comune tra chi ricopre posizioni di vertice in politica.

Il consenso all’interno del Paese, così come l’attenzione e l’apprezzamento internazionale, sono cresciuti grazie alla combinazione di pragmatismo, capacità di reazione e umanità che la premier ha saputo mettere in atto, in particolare durante la pandemia

Il suo consenso e la sua popolarità all’interno del Paese, così come l’attenzione e l’apprezzamento internazionale, sono cresciuti proprio grazie a questa combinazione di pragmatismo, capacità di reazione e umanità che ha saputo mettere in atto, in particolare durante la pandemia, affrontata con efficacia, tempismo e trasparenza, riuscendo a limitare fortemente il numero di vittime, tanto che la Nuova Zelanda è stata tra i Paesi più virtuosi nel controllarla, registrando addirittura un aumento dell’aspettativa di vita. Ma a contraddistinguere la sua gestione dell’emergenza sanitaria non è stato solo lo sforzo dedicato al contenimento del virus, ma anche l’attenzione nei confronti delle implicazioni sociali del lockdown e dei bisogni dei cittadini, soprattutto i più vulnerabili, come i bambini, gli anziani e la popolazione māori. Particolarmente significativa in tal senso si è rivelata la scelta di salvaguardare le “bolle sociali” degli individui, ossia la cerchia di persone con le quali si interagisce nella quotidianità, dai familiari, ai caregiver, ad altre figure significative, in modo tale da ridurre i rischi di isolamento.

Nelle elezioni del 2020, nonostante il costo economico delle restrizioni sanitarie, Ardern ha ottenuto una straordinaria riconferma, arrivando al 49% dei voti. Tuttavia, proprio il fatto di essere una giovane donna ed essere diventata al contempo simbolo del rigore antivirus, le ha scatenato contro molte reazioni di odio da parte di gruppi misogini, reazionari e no-vax. Al contempo, la limitata efficacia tanto delle politiche ambientaliste quanto di quelle per limitare la povertà ha cominciato a erodere il suo consenso.

Come ci si poteva aspettare, considerata la qualità del dibattito mediatico nel nostro Paese, molti dei primi commenti circolati su giornali, siti e televisioni in merito a queste dimissioni inattese hanno proposto letture basate sui più triti cliché di genere, indugiando sulla dimensione emozionale (Jacinda Ardern annuncia le dimissioni in lacrime) o su quella familistica (Jacinda Ardern lascia “esausta”: quando la famiglia vince sulla politica). Una tentazione peraltro in cui è caduta persino la Bbc titolando (per poi cancellare poco dopo): Jacinda Ardern resign: can women really have it all?.

D’altra parte, la premier neozelandese – come ogni donna nella sua posizione – si era trovata più volte a confrontarsi con stereotipi e atteggiamenti sessisti, fino al recente incontro con Sanna Marin, premier finlandese, in cui era stato chiesto loro se si fossero incontrate “perché avevano la stessa età e un sacco di cose in comune”. E non le erano mai mancate le parole per replicare a tono, evidenziando l’incongruenza e i sottotesti sessisti di domande e commenti di questo tipo.

C’è in realtà una lente di genere che potremmo utilizzare anche nella lettura di queste dimissioni, sia nella loro sostanza, sia nella forma. Una lente affine a quella già adottata per interpretare le ragioni del maggiore successo ottenuto dalle (poche) leader donne nel mondo – tra cui appunto la stessa Ardern – nell’affrontare la crisi pandemica: leader, che in maniera più netta di molti dei loro omologhi di genere maschile, si erano contraddistinte per la capacità di agire in modo tempestivo, originale, democratico, più attento alle implicazioni di carattere sociale e psicologico. Una differenza che certo non può essere attribuita a differenze biologiche, ma piuttosto a quelle della costruzione sociale del genere. La diversa socializzazione e le diverse aspettative che caratterizzano i vissuti femminili tendono infatti a far sì che le donne corrano minori rischi di restare intrappolate in ego ipertrofici e autoreferenziali e nelle retoriche tossiche del presenzialismo e del machismo inossidabile. Meno vittime della presunzione di indispensabilità e dunque più capaci di prendere le distanze dalla fascinazione e dagli arrocchi del potere. E soprattutto più consapevoli dei propri limiti e delle proprie fragilità, non in quanto donne, ma in quanto esseri umani.

La buona politica passa anche dal riconoscimento della fragilità umana di chi la fa, dalla consapevolezza e dal rispetto nei confronti della responsabilità che si esercita, dal coraggio di ammettere la fine di un ciclo e di fare un passo indietro quando è ora

“Anche i politici sono umani. Facciamo tutto quello che possiamo per tutto il tempo che possiamo, poi a un certo punto è ora di andare” – ha scritto ancora in un post Jacinda Ardern. Una considerazione che potrebbe sembrare ovvia, ma che in realtà non lo è per nulla. Certamente non lo è se pensiamo a un mondo, come quello in cui stiamo vivendo, tenuto sotto scacco da uomini così aggrappati al potere da arrivare a stravolgere le regole della democrazia pur di non perderlo. Ma non lo è neppure se guardiamo al nostro Paese, in cui a ogni livello della politica ritroviamo sempre gli stessi volti. Per lo più uomini, incapaci di riconoscere che il loro tempo è finito e che, di fronte a nuovi scenari e a sfide inedite, ci sarebbe bisogno di rinnovate energie e motivazioni (al di là di quella di presidiare il proprio scranno). Anzi, proprio per superare limiti e fallimenti frutto anche dalla loro miopia e autoreferenzialità, sarebbero necessari sguardi e prospettive inedite.

Chapeau, dunque, ancora una volta, per Jacinda Ardern, che in questa sua uscita anticipata dalle stanze del potere ci ha ricordato come la vita sia fatta di tante dimensioni e di stagioni diverse. Ma soprattutto come la buona politica passi anche dal riconoscimento della fragilità umana di chi la fa, dalla consapevolezza e dal rispetto nei confronti della responsabilità che si esercita, dal coraggio di ammettere la fine di un ciclo e di fare un passo indietro quando è ora, lasciando spazio ad altre soggettività e a nuove energie.