Quando cominciai a lavorare per il Mulino, agli inizi degli anni Settanta, Fabio Luca Cavazza si era già trasferito a Milano (1963) per creare con Piero Bassetti una società di analisi sociali e di mercato (tra le sue tante attività successive negli anni Ottanta entrò nel CdA del “Corriere della Sera”: così ebbe l’inizio la mia collaborazione con quel giornale e poi con il “Sole - 24 Ore”, di cui Cavazza fu amministratore delegato e in seguito direttore). Ebbi ben presto mitici racconti del suo cruciale ruolo svolto nell’avvio del Mulino e nella promozione dell’edizione italiana dei Federalist Papers. Tra l’altro era stato Victor Sullam, professore ebreo di origini veneziane (costretto all’emigrazione nel 1938 dalla crudeltà nazista), a introdurlo alla sezione culturale del dipartimento di Stato e alle fondazioni Ford e Rockefeller.

Un po' per questi racconti dell’epoca favolosa del “primo” Mulino, un po' per le mie simpatie atlantiche (la Nato aveva finanziato i miei studi di scienze cognitive a Londra negli anni Sessanta), fatto sta che, quando ero a Princeton, seguii un dibattito sulla costruzione della democrazia in America e sui differenti punti di vista di Hamilton e Jefferson. Hamilton concepiva una forte autorità centrale, un esercito grande e potente, una politica industriale guidata dalle autorità federali e una attiva politica estera. Jefferson, al contrario, auspicava un potere centrale debole, milizie e polizie locali, una nazione di agricoltori nuova e autonoma. Due visioni, una urbana ed espansiva, l’altra più isolazionista e rurale (il tema è sviluppato a lungo nel capitolo Making Democracy del libro di Scott Montgomery e Daniel Chirot, The Shape Of The New, pubblicato da Princeton University Press nel 2015). Mi sembra che abbia prevalso Hamilton dato che, come osserva Paolo Pombeni, «la democrazia come sistema di governo è stata a lungo “esportata” in tutto il mondo che si è trovato sotto il dominio euro-americano con risultati controversi […] e si è realizzata l’assimilazione di alcuni modelli di way of life».

Non sono preparato a sufficienza per prendere posizione sul primo di questi due punti. D’altronde anche studiosi ben più esperti di me sembrano avere giudizi differenti sulla presunta fine dell’esportazione delle democrazie e dei modi di vita anglosassoni. Abbiamo chi, come ricorda Pombeni, parla di fine della storia con il crollo dei regimi socialisti e chi invece aveva cercato di mostrare il declino americano (come, ad esempio, già aveva fatto l’antropologo Marvin Harris con America Now, Feltrinelli, 1983; il Mulino aveva tradotto nel 1971 la sua ottima storia del pensiero antropologico, un classico). Credo che i parametri utilizzabili per decretare un eventuale declino siano molti e che, a seconda dei punti di vista, si possano dare valutazioni differenti. Comunque il dibattito non è mai tramontato, visto che Trump attacca la rivale Harris affermando che il suo “socialismo californiano ammazzerebbe l’American dream”. Pura propaganda che batte sempre sui soliti tasti che non tramontano mai: il sogno americano con annessi e connessi (cfr. V. Salama e T. Parti, Biden’s Formal Campaign Exit Kickstarts Brutal Trump-Harris Battle, “Wall Street Journal”, 24.7.24). Farò invece alcune osservazioni sul secondo dei due punti accennati da Pombeni, un tema più consono ai miei studi e alle mie attività del passato: l’esportazione dei modi di vita americani. Senza dubbio qui prevalse l’America da “esportazione” sognata da Hamilton.

All'inizio del secolo, al contrario degli imperialismi europei, che cercavano di imporre la loro cultura con la forza e l’espansione coloniale, la via che gli Stati Uniti imboccheranno è pacifica

La data fatidica e convenzionale è il 10 luglio 1916, in piena Grande guerra. A Detroit, futura capitale dell’auto, il presidente americano Woodrow Wilson, durante il primo congresso mondiale dei venditori, esalta la lotta per la conquista dei Paesi stranieri con mezzi pacifici. Al contrario degli imperialismi europei, che cercavano di imporre la loro cultura con la forza e l’espansione coloniale, la via che gli Stati Uniti imboccheranno sarà pacifica. Essa consiste nello “studio dei gusti e delle esigenze dei Paesi nei quali s’intendono individuare sbocchi di mercato, e l’adattamento di conseguenza delle proprie merci”. Interessante notare come la storia di questo programma mostri, nel corso del secolo successivo, proprio la capacità di adattamento alle diverse culture. Non certo quindi un dominio imperialistico, ma la comprensione attenta e rispettosa dei gusti e delle preferenze altrui (anche se, curiosamente, il saggio più bello su questo tema è stato intitolato proprio L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, di Victoria De Grazia, Einaudi, 2006).

Se proprio vogliamo definirlo un impero, si trattava di un impero benevolo perché non poteva imporsi con la forza bruta ma essere accettato dopo aver persuaso, con tutti i mezzi pacifici possibili, i potenziali utenti appartenenti alle culture più diverse: non violenta costrizione ma gentile convinzione. Così avvenne per l’adozione degli elettrodomestici inventati negli Stati Uniti: dall’aspirapolvere fino al forno a microonde, l’ultimo arrivato (scoperto per caso e poi commercializzato dal 1955 dalla società Raitheon). Molti avranno visto il recente film Oppenheimer, dedicato alla costruzione dell’atomica, in cui si parla di Albert Einstein e Leo Szilárd. Probabilmente pochi sanno, ogni volta che aprono il frigo, che il primo apparecchio privo di parti mobili e quindi di guarnizioni, come quello che hanno in casa, fu brevettato dagli stessi Einstein e Szilárd, i due “pacifisti” che inventavano elettrodomestici e non volevano partecipare alla costruzione di bombe.

Oggi l’uso degli elettrodomestici è familiare e viene per lo più dato per scontato, anche se ben pochi sanno come funzionano veramente. Forse altrettanto pochi ricordano che queste macchine sono, per così dire, il contributo a una storia di liberazione dall’oppressione. Con le parole di De Grazia: “L’aumento della spesa per la casa era del tutto legittimo in una società che dava grande risalto al mestiere di casalinga […] e in cui la consapevolezza per i diritti della donna – quantomeno il diritto di mandare avanti una casa senza doversi sfiancare – era piuttosto diffusa” (cfr. De Grazia, L’impero irresistibile, cit., cap. II, par. 3; per una sintesi rimando al mio Frugalità, Il Mulino, 2014). Certo, la liberazione della donna, del suo corpo, non è finita e, anzi, è diventata oggetto di duro scontro nella recente campagna presidenziale statunitense (cfr. Paul Krugman sul “New York Times” del 25 luglio scorso).

Una campagna in cui si confrontano due “Americhe”, in netta contrapposizione reciproca. Possiamo forse ritrovare uno scontro così divisivo soltanto risalendo ai tempi della guerra civile. Con il ritorno a pregiudizi e insulti feroci che si credevano scomparsi: ma forse il paragone non è corretto perché da allora tutto è cambiato (cfr. Allan Ripp sul “Wall Street Journal” del 26 luglio: I Never Thought I Could Be Attacked as a Jew in New York City. Until It Happened).

Oggi alla radice di queste contrapposizioni aggressive e insultanti, come vedremo, ci sono ben altre forze. In primo luogo si può osservare che i modi di funzionare dell’Intelligenza artificiale e il suo uso diffuso sanciscono la definitiva sconfitta dei progetti di costruzione della società basati su una pianificazione centrale e il trionfo della vecchia idea di Frederick Hayek de “l’ordine spontaneo”, o de “l’auto-organizzazione della società”. Non si tratta più soltanto di aggregare i comportamenti individuali perché questi ultimi sono influenzati a loro volta, in modi difficili da misurare per la loro complessità, dai mutevoli comportamenti delle popolazioni a cui l’individuo appartiene e dalla sua interazione con tutte le altre persone. L’Intelligenza artificiale generativa più recente funziona proprio andando a pescare i dati su Internet e questi dati – sotto forma di linguaggi, audio o immagini – provengono dagli stessi utenti per poi essere rielaborati.

Succede così che l’invasione pacifica, auspicata da Woodrow Wilson più di un secolo fa, non sia più fatta di beni e servizi materiali ma tramite contenuti e informazioni, insomma messaggi, che sono volti e rivolti direttamente alle menti e ai cuori delle persone. Di conseguenza l’esportazione e la diffusione mondiale dei prodotti e degli stili adottati negli Stati Uniti non riguardano tanto e soltanto la vita domestica e l’organizzazione della casa. Abbiamo invece a che fare con beni e servizi immateriali che plasmano l’organizzazione del lavoro e i consumi nel tempo libero. Via via che i Paesi un tempo “importatori” cominciarono a costruirsi a casa loro i prodotti e i servizi necessari, si trasformarono sempre più spesso in “esportatori” grazie a manifatture fiorenti e a costi di manodopera più bassi rispetto a quelli dei Paesi dove quei beni materiali erano stati inventati.

Il crescere continuo e inarrestabile dei beni e servizi intangibili rispetto a quelli tangibili sullo S&P 500 (il principale indice azionario statunitense) mostra il peso crescente dell’immateriale rispetto alla capitalizzazione delle 500 più importanti società statunitensi.

 

A questo punto si poteva supporre che il programma annunciato nel 1916 da Woodrow Wilson fosse terminato. Invece è proseguito in forme nuove: la perdita di influenza nel campo dei consumi materiali è stata ampiamente compensata dall’esportazione di beni e servizi immateriali. Il successo di questa esportazione lo si può rozzamente constatare misurando quanto tempo le persone stanno chine, anche al di fuori delle ore di lavoro, sugli schermi dei loro apparecchi, per lo più portatili. Per una sorta di paradosso, alle poche aziende statunitensi che controllano questi nuovi modi di vita non importa che “il modello occidentale sotto attacco si indebolisca, anche in modo rilevante”. Neppure importa loro avvalorare il “supporto di una cultura diffusa e condivisa che vedeva in tale modello occidentale il miglior sistema di gestione, razionale, della convivenza politica”. Si tratta di società multinazionali potentissime e influenti: sono quotate sulla borsa statunitense, dove la capitalizzazione di sole dieci società dell’immateriale vale circa un terzo di quella di tutte le altre società messe insieme (e le borse americane valgono da sole più della metà di quelle di tutto il mondo). Malgrado le radici negli Stati Uniti si tratta di aziende globali, spesso in competizione tra loro, che vogliono attirare l’attenzione dei potenziali clienti e catturarli trasformandoli in fedeli fruitori. Ma oggi non lo si fa più con i tradizionali strumenti del marketing e della comunicazione pubblicitaria. Lo si fa cercando di catturare seguaci con qualsiasi tipo di messaggi. In un mercato ormai saturo, si è costretti a farlo evocando divisioni, paure, fantasie anche assurde, illusioni, e diffondendo informazioni scollate dalla realtà ma tali da permettere l’aggregarsi in fazioni contrapposte tra loro (cfr. il mio Le cose non sono come sembrano, Il Mulino, 2023).

La figura (da U. Pagano e M. Rossi, Come sorridere anche noi, “L’industria”, ottobre-dicembre 2019, pp. 693-717) mostra che in un’economia dell’immateriale cresce progressivamente la quota di valore relativa all’idea (brevetto) e al dopo-vendita (monopolistico), mentre la produzione perde importanza. Il sorriso della faccia, che un tempo contribuiva a quote di valore lungo tutta la filiera, si trasforma via via in risata.

Oggi assistiamo a rabbioso ribellismo aizzato dai social, con fazioni politiche sempre più contrapposte, come si vede, per esempio, durante la lotta per la presidenza statunitense

Ecco che il modello della democrazia tradizionale americana e le esportazioni di beni e servizi intangibili ad opera di questi potentati extra-territoriali sono entrati in collisione. I neoimperialismi di cui parla Pombeni sono avvantaggiati dallo sfruttamento di questi strumenti per i loro progetti di controllo e di dominio, non solo dei “sudditi nazionali”. Le democrazie occidentali cercano di porre un freno con una serie di regolamentazioni. Sono tentativi generosi ma, almeno per ora, votati all’insuccesso. Lo dimostrano alcuni episodi relativi agli errori nella progettazione dei software che hanno bloccato a fine luglio molti voli aerei, e anche i precedenti tragici sbagli che hanno condotto alla caduta di due aerei Boeing senza che i piloti impotenti riuscissero a intervenire. Questi fallimenti mostrano che le stesse case produttrici non controllano bene il funzionamento dell’Intelligenza artificiale. Vengono poi multate per errori di cui non capiscono bene le cause. D’altronde i più recenti programmi di intelligenza generativa funzionano in modi impenetrabili e imperscrutabili anche per chi li ha costruiti.

Infine, non va dimenticato che l’uomo non ha avuto tempo sufficiente per adattarsi a questi nuovi mondi dell’immateriale. L’evoluzione ci ha costruito per ben altri mondi e l’uomo si è presentato di fronte a questi nuovi ambienti di vita da un lato ammaliato e dall’altro fragile e indifeso. Oggi non è facile cambiare. Di qui un completo scollamento tra la realtà delle cose e quella che molti credono essere la realtà. Di conseguenza assistiamo a rabbioso ribellismo aizzato dai social, con fazioni politiche sempre più contrapposte, come si vede, per esempio, durante la lotta per la presidenza statunitense. In effetti il rapporto tra l’intelligenza naturale e i nuovi strumenti artificiali può essere produttivo. Nel contempo l’interazione uomo-macchina può scombussolare la nostra dotazione cognitiva ed emotiva (ho trattato a lungo questo tema in L'intelligenza del futuro. Perché gli algoritmi non ci sostituiranno, Mondadori, 2024). Ma questa è un’altra storia. Una storia però con cui le democrazie occidentali dovranno confrontarsi per non soccombere ai neoimperialismi. Sembra che gli sviluppi di scienze e tecnologie radicalmente innovative, inizialmente di origine britannica e statunitense ma poi diffuse in tutto il mondo, siano diventati controproducenti rispetto a quella esportazione dei modelli democratici di cui parla Paolo Pombeni.