A proposito delle prossime elezioni americane i nostri media ci dicono poco su come sta andando la contesa per il rinnovamento di tutta la Camera dei Rappresentanti e dei 35 posti (cioè un terzo) del Senato. Trump è una manna per i media: ogni giorno il presidente della massima potenza mondiale dice qualcosa di balordo o ignobile, fornendo a giornali e televisioni un titolo assicurato; senza trarne si direbbe maggior favore elettorale ma oscurando altri aspetti decisivi della campagna.
I risultati congressuali sono cardine per gli sviluppi dopo il 3 novembre: in caso di “governo diviso”, chiunque diventi presidente avrà poco spazio di iniziativa legislativa, contando solo sui poteri esecutivi del presidente. Chi invece realizzasse “la triade”, dominando sia la Casa Bianca che entrambe le Camere, godrebbe di un’ampia possibilità di realizzazione programmatica. Nessuno spera nel risorgere della politica bipartisan in tempi di polarizzazione radicalizzata. Gli ultimi presidenti, Obama e lo stesso Trump, hanno goduto del favore congressuale nei primi due anni della loro amministrazione, poi le elezioni intermedie hanno capovolto la situazione e tarpato le ali al programma del presidente.
Alla Camera si eleggono tutti i 435 distretti congressuali, i democratici detengono la maggioranza con 235 seggi dal gennaio 2019; i repubblicani dovrebbero vincerne 21 in più per riconquistarla.
Alla Camera sembra che non ci sia gara, i democratici manterranno la maggioranza, magari la allargheranno, e bisognerà vedere quali ali del partito verranno premiate, e secondo quale distribuzione geografica e sociale. L’ “Economist” prevede che i seggi democratici saranno tra i 223 e i 264, e quelli repubblicani tra i 171 e i 212.
Il terreno di vero scontro è il Senato: potranno i democratici, in caso di vittoria elettorale, riconquistare il Senato, dove sono in minoranza di 45 seggi più 2 indipendenti rispetto a 53 repubblicani? Dei 35 seggi da rieleggere, 12 sono attualmente tenuti dai democratici e 23 dai repubblicani, il che mette questi ultimi a maggior rischio di perderne qualcuno. Rispetto all'attuale situazione di 53 a 47, per diventare maggioranza i democratici devono conquistare 3 seggi (così da arrivare a 50 i democratici e 50 i repubblicani) se Biden vince (il vicepresidente presiede il Senato e il suo voto decide in caso di parità), se Biden è sconfitto i democratici conquistano 4 seggi (51 democratici, 49 repubblicani), a condizione di non perderne nessuno a loro volta.
A questo punto contano i singoli senatori e i loro Stati di provenienza secondo un intreccio di fattori nazionali e locali. È importante la geografia partitica che vede i democratici molto forti negli Stati costieri (ma in quelli atlantici solo a nord di Washington), mentre i repubblicani predominano nel Sud storico e negli Stati di pianura e montagna del Mid-West e del Far West. Tuttavia anche per il Senato, come per il presidente, ci sono diversi “Stati in bilico”. Conta poi una eventuale vittoria di Biden come traino a successi senatoriali democratici, e conta se Trump ha vinto lo Stato nel 2016, è rimasto popolare, oppure è diventato una zavorra; poi naturalmente contano le vicende statali e locali.
Quest’anno poi l’elezione senatoriale (come quella presidenziale) si intreccia con la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema. I repubblicani cercano di attirare l’elettorato conservatore di Stati midwestern contesi come Iowa e Kansas, magari deluso da Trump, con la possibilità che la nuova Corte cancelli l’aborto e la riforma sanitaria di Obama. Quest’ultimo rischio è stato scelto dai democratici come linea d’attacco contro Barrett e per far progredire i propri candidati senatoriali in aree “rosse” come Arizona e North Carolina (i colori partitici americani sono capovolti rispetto a quelli europei: i “rossi” sono i repubblicani cioè i conservatori, i “blu” i democratici di centro sinistra).
Quanti seggi repubblicani sono a rischio di non rielezione? Le opinioni variano: secondo l’autorevole “Cook Political Report” i seggi in bilico sono 7, in Stati che in parte hanno cambiato colore in passato, o in Stati sudisti tradizionalmente repubblicani. Il canale televisivo Cnn ne ha calcolati soprattutto 5, e quello più a rischio di tutti è democratico: il Sen. Doug Jones dell’Alabama, Stato del profondo sud, molto “rosso”, che Trump aveva vinto nel 2016 con ben il 28% di maggioranza su Hillary.
Per quanto riguarda i repubblicani, sono molto a rischio i posti dei senatori Martha McSally in Arizona e Cory Gardner in Colorado, entrambi Stati desertici del Far West, considerati in bilico ma con tendenza filo-democratica (soprattutto il secondo). Entrambi i senatori, danneggiati dalla figura di Trump, sono da diversi mesi indietro nei sondaggi rispetto ai loro sfidanti.
Gli altri casi sono meno lampanti: in North Carolina, Stato sudista “rosso”, il repubblicano Thom Tillis non è riuscito a costruirsi un profilo diverso da quello dell’ubbidiente sostenitore della gestione trumpiana del coronavirus. Inoltre sono emerse nuove potenzialità per i candidati democratici nel Sud, grazie all’alleanza tra fasce bianche di recente immigrazione interna, ad alto reddito ed educazione, e con la forte partecipazione della maggioranza democratica dei neri. Sembrava appunto questo il caso della North Carolina a favore dei candidato democratico Cal Cunningham, che tuttavia è recentemente incappato in uno scandalo sessuale e sembra che il suo vantaggio sia stato eroso. Un caso a conferma del detto popolare che i candidati democratici si rovinano con gli scandali di sesso e i repubblicani con quelli finanziari.
Ancora più complicato il caso di Susan Collins, senatrice del Maine, Stato all’estremo nord della costa atlantica, prevalentemente “blu”. La senatrice si è costruita dal 1996 una lunga carriera senatoriale assumendo un atteggiamento bipartisan ( come ha fatto ad esempio Michael Bloomberg, già sindaco di New York, un tipo di repubblicano moderato e aperto degli Stati centro-nord atlantici largamente scomparso in anni trumpiani) che ne ha fatto una consolidata dissidente all'interno del partito repubblicano. La sua posizione super partes è stata tuttavia fortemente erosa dal suo voto di conferma per il giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh, nominato da Trump e aborrito da tutto il mondo democratico e progressista. La possibilità di continuare a fare critica repubblicana del trumpismo in terra democratica si è ridotta, anche se Collins cerca di recuperarla non votando Barrett alla Corte Suprema. È indietro nei sondaggi ma è una senatrice molto radicata.
Ancora, i candidati “blu” sono solo pochi punti indietro nel rinnovo del seggio in Iowa ( qui la solida senatrice Joni Ernst è molto danneggiata dall’immagine di Trump), Georgia e Montana. Come è avvenuto nove volte su dieci in passato, una solida vittoria di Biden darebbe loro una forte spinta. Inoltre un'anticipata elezione suppletiva nel Kansas “rosso” vede favorito il candidato democratico (un ex-repubblicano antitrumpiano).
I democratici contano sugli sviluppi demografici favorevoli e quindi su un’alta partecipazione elettorale, i repubblicani sperano che il successo della nomina della Barrett mobiliti il loro elettorato.
Il tono delle previsioni è molto incerto: l’autorevole società di sondaggi Real Clear Politics prevede una risicata prevalenza democratica 51 a 49. L’altra società Five Thirty Eight dava ai democratici il 74% delle possibilità di conquista del Senato, ma le ha nettamente ridotte negli ultimi giorni. Esiste effettivamente un itinerario elettorale che porterebbe i democratici in maggioranza ma è molto problematico. E naturalmente ci sono le sorprese dell’ultimo istante che non sono affatto escluse.
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