Il congresso tenuto dal 25 al 29 settembre a Brighton, località balneare nel Sud dell’Inghilterra, doveva rappresentare un cambio di marcia per il Labour di Keir Starmer, il leader succeduto a Jeremy Corbyn nell’aprile del 2020. Era il primo congresso faccia a faccia dopo quello tenuto online l’anno precedente causa pandemia. Un’occasione per gli iscritti per rivedersi e ricostruire unità di intenti superando i conflitti interni che hanno dilaniato il partito negli ultimi anni.
Eppure, nella storia del partito fondato nel 1900 tra gli altri dal minatore Keir Hardie (da cui prende il nome l’attuale segretario) per dare rappresentanza politica ai sindacati, l’evento verrà ricordato soprattutto come una battaglia tra le sue diverse anime. Come asserito dal giornalista laburista Paul Mason, il congresso di Brighton ha messo in luce non un partito ma due, che si odiano a vicenda: l’ala blairista, che appoggia Starmer, e l’ala socialista, orfana di Corbyn. Nella sala conferenze del Queens Hotel dove è andato in scena il congresso ci sono stati molti momenti di tensione. Il discorso finale di Starmer è stato interrotto da militanti che mostravano cartellini rossi e striscioni che recitavano «no alla purga».
L’ex avvocato e procuratore di alto rango si era proposto come candidato capace di unire il partito: una via di mezzo tra il nuovo afflato radicale dei giovani militanti socialisti e la electability, ossia la capacità di vincere le elezioni associata con l’era Blair e le 3 elezioni vinte tra il 1997 e il 2005. La sconfitta del dicembre 2019, che ha garantito ai Tories una maggioranza di 78 seggi, doveva essere monito contro il radicalismo e portare a un partito unito e credibile, ma comunque votato a un cambiamento progressista.
Su questa base Starmer riuscì ad assicurarsi un sostegno trasversale nel partito: diversi sostenitori di Corbyn, tra cui lo stesso Paul Mason, hanno spinto per la sua candidatura e alla fine Starmer ha sbaragliato la candidata corbynista, Rebecca Long-Bailey. Finí 56% a 27%. Uno smacco per i corbynisti che – con le elezioni del 2017 con il Labour al 40% e a pochi seggi dai conservatori – erano arrivati a sognare un governo socialista.
Starmer prometteva di rimettere la giustizia sociale al centro. Tuttavia, sul fronte programmatico, ora sembra aver messo da parte la nazionalizzazione di servizi essenziali, il Green New Deal e l’aumento di salari, tornando a parole d’ordine dell’era Blair
Starmer prometteva di mettere la giustizia sociale al centro delle sue proposte e più dialogo e democrazia interna al partito. Tuttavia sul fronte programmatico Starmer ha messo da parte proposte socialiste come la nazionalizzazione di servizi essenziali, il Green New Deal, e l’aumento di salari, tornando a parole d’ordine dell’era Blair, con un vago patriottismo a fare da condimento. E sul fronte interno ha sostenuto una campagna disciplinare interna che ha portato a migliaia di espulsioni, mentre ben 120 mila iscritti hanno abbandonato volontariamente il partito, contribuendo a portarlo verso la bancarotta.
La stella polare della leadership di Starmer doveva essere la credibilità unita alla competenza: il figlio prodigio di un umile «fabbricatore di utensili» – come lui stesso ha affermato durante il suo discorso al congresso – ha cercato di fare leva sulla sua esperienza legale e sui ruoli ricoperti negli alti ranghi dell’apparato statale e ha ripetuto che il Labour è sotto «new management». L’obiettivo è recuperare una rispettabilità del partito presso i media e l’opinione pubblica come condizione necessaria per tornare al governo.
Oltre la retorica, la sostanza dell’era Starmer è una forte moderazione del programma. Mentre Johnson ha abbandonato l’austerità e diversi dogmi thatcheriani, lanciando un piano infrastrutturale da centinaia di miliardi di sterline, il Labour di Starmer cerca di farsi vedere come il partito responsabile rispetto alle finanze del Paese. La cancelliera ombra Rachel Reeves ha pure proposto di creare un Office of Value for Money, una commissione simile a quella sulla revisione della spesa di Cottarelli per individuare sprechi nello Stato italiano.
Sembra di assistere a un ritorno a quelli che il teorico politico Jeremy Gilbert chiama i «lunghi anni Novanta», la fase di ottimismo per la globalizzazione e la Terza Via. Dal febbraio scorso Starmer ha chiamato come consigliere Peter Mandelson, il potente alleato di Blair, soprannominato «principe delle tenebre» per la spietatezza e le amicizie altolocate. Ultimo affronto alla base è l’editoriale scritto sulle pagine del «Sun», il tabloid di Rupert Murdoch odiato dalla sinistra e dagli abitanti di Liverpool, per le accuse infamanti pubblicate sull’incidente di Hillsborough del 15 aprile 1989 in cui morirono 97 tifosi. Fu proprio il «Sun» che nel 1997 contribuì alla vittoria di Blair schierandosi a sorpresa per il «New Labour».
Un ritorno dello spirito New Labour accompagnato da dichiarazioni di patriottismo, inteso come fedeltà alle istituzioni, all’esercito, alla monarchia e al sistema di sicurezza dello Stato, da cui lo stesso Starmer proviene
Questo ritorno dello spirito «New Labour» è accompagnato da dichiarazioni di patriottismo, inteso come fedeltà alle istituzioni, all’esercito, alla monarchia e al sistema di sicurezza dello stato, da cui lo stesso Starmer proviene. È una strategia ispirata dalla corrente Blue Labour dentro il partito che pensa che per recuperare credibilità presso le classi più povere la sinistra debba adottare valori conservatori. Così Starmer, che era contrario alla Brexit e durante l’era Corbyn sosteneva un secondo referendum, pensa di riconnettersi con il senso comune del Paese. Una narrazione che finora si è però rivelata poco credibile.
Già dai primi scontri con Johnson, nel tradizionale Prime Minister Question Time del mercoledì, Starmer ha messo in luce diverse pecche: la sua assenza di carisma ed empatia e la vacuità delle proposte. Diversi elettori intervistati dalle televisioni britanniche hanno dichiarato di non sapere bene che cosa Starmer volesse. Il suo indice di gradimento è molto basso: al momento, secondo YouGov, la differenza tra chi pensa che stia facendo un buon lavoro e chi non ne è convinto è di 39 punti a favore dei secondi. Da quando Starmer lo guida, il Labour ha perso un’elezione suppletiva a Hartlepool e diverse elezioni locali. E i sondaggi hanno dato costantemente il partito a grande distanza dai conservatori. Sempre secondo YouGov a oggi il Labour è ancora 7 punti indietro ai conservatori e questo nonostante il governo di Johnson stia attraversando una fase molto difficile. La gestione dell’emergenza Covid da parte dei conservatori è stata piena di pecche. Partito con una strategia di immunità di gruppo, Johnson ha dovuto presto fare inversione a U, con ripetuti lockdown e finendo lui stesso in terapia intensiva. A oggi la Gran Bretagna è davanti all’Italia il Paese con il più alto numero totale di morti per Covid in tutta Europa: 136 mila a settembre 2021. Inoltre la gestione della pandemia è stata macchiata da scandali, con contratti legati alla pandemia assegnati a personalità legate al Partito conservatore e ha svelato l’effetto dei tagli inferti durante i governi Cameron.
La Gran Bretagna sta inoltre facendo i conti con gli effetti immediati della Brexit sulla logistica. Nelle ultime settimane la crisi di approvvigionamento di materie prime e la conseguente mancanza di manodopera ha provocato code davanti ai distributori di benzina, rimasti senza carburante. Un’immagine devastante per la reputazione del governo Johnson. Eppure Starmer non è stato in grado di capitalizzare questo momento: i cittadini britannici pensano che sia meno affidabile di Johnson. Non è riuscito a sedurre l’elettorato, ma in compenso è riuscito nel record poco invidiabile di presiedere la più grande guerra interna al Labour dagli anni Ottanta a questa parte. Inizialmente aveva dato segnali di dialogo, mettendo Long-Bailey e altri corbynisti nel suo governo ombra. Ma presto è cominciato l’attacco all’ala socialista del partito, con una raffica di provvedimenti disciplinari. L’ex leader Jeremy Corbyn è stato sospeso dal partito, Rebecca Long-Bailey «licenziata» dal governo ombra. Migliaia di iscritti sono finiti sotto inchiesta interna e sono stati sospesi o espulsi, portando alle accuse di purga da parte della sinistra.
A far infuriare ancora di più l'ala sinistra del partito è il fatto che Starmer abbia proposto un cambiamento nel sistema di elezione del leader, togliendo il voto agli iscritti e ritornando al sistema dell’«electoral college» che era stato abbandonato sotto Miliband. Questo sistema prevede che l’elezione del leader non avvenga con voto individuale, ma con un sistema misto che attribuisce molto peso ai voti collettivi delle organizzazioni costituenti del Labour, a partire dai sindacati.
Di fronte al rifiuto dei sindacati, Starmer ha spinto per un’altra modifica che è stata infine approvata con stretto margine al congresso: portare la soglia di parlamentari Labour necessari per la candidatura a leader dal 10 al 20%. Rispetto ai partiti continentali, in quelli britannici, infatti, è consuetudine che il gruppo parlamentare abbia il compito di selezionare i candidati. Ma è un meccanismo di chiaro stampo oligarchico e il Labour è diventato il partito con i criteri più stringenti per la nomina. Nei conservatori sono sufficienti 8 parlamentari, circa il 4% (anche se poi c’è una selezione interna per i primi due prima di passare la parola agli iscritti). Con i Libdem è il 10%. Un cambiamento chiaramente motivato dalla paura di una nuova rivolta della base, come quella vista nel 2015 con l’elezione a sorpresa di Corbyn.
Negli Stati Uniti il presidente Joe Biden, dopo avere vinto le primarie contro Sanders, si è dimostrato disponibile ad adottare diversi punti del programma del senatore del Vermont. In Germania nella Spd c’è stato negli ultimi anni uno spostamento a sinistra della leadership, e a fare il vice-segretario è finito Kevin Kühnert, un trentenne di fede socialista che si ispira a Corbyn e Sanders. Pure Tony Blair era conscio della necessità di non antagonizzare del tutto la sinistra, che gli era utile per la campagna porta a porta. Keir Starmer invece sembra indifferente al fatto di avere perso la fiducia di parte significativa dei militanti.
Se l’attuale guida del partito continuasse a non entusiasmare, i centristi Labour potrebbero ripiegare su un altro candidato. Se si aprisse la lotta per la leadership, la sinistra corbynista e la «soft Left» potrebbero convergere sull’attuale vice-leader del partito Angela Rayner, che già era nel governo ombra di Corbyn. Ma rimane più probabile che sia lo stesso Starmer a portare il partito, seppur fortemente diviso, alle prossime elezioni. Si parla già di un tentativo di escludere dal governo ombra l’ex segretario Ed Miliband, che pure si è dimostrato sempre leale con l’attuale leader. Sembra che il Labour sia destinato ancora a lungo a proseguire la sua insostenibile guerra interna, permettendo così a Johnson di dormire sonni tranquilli.
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