Come era prevedibile, le elezioni politiche del 25 settembre hanno registrato una chiara vittoria dello schieramento di destra e, al suo interno, il trionfo di Fratelli d'Italia e della sua leader Giorgia Meloni. FdI ha ottenuto un numero di consensi maggiore rispetto alla somma di quelli ottenuti dai suoi due alleati principali, vale a dire Lega e Forza Italia. Il che, anche grazie a una legge elettorale assai discutibile, consegna a FdI e ai suoi alleati una maggioranza parlamentare che, almeno sulla carta, dovrebbe essere garanzia di una stabilità tale da permettere scelte politiche nette. Per la prima volta il nostro Paese potrebbe avere un Primo ministro donna, che però non proviene dallo schieramento in cui le battaglie per l'emancipazione femminile si sono tradizionalmente collocate, ma addirittura da un partito che nel suo simbolo esibisce la fiamma tricolore, per di più a un secolo esatto dalla fatidica Marcia su Roma.
Le ragioni della vittoria della destra sono molteplici, e i commentatori le stanno elencando con dovizia di particolari. La coerenza politico-culturale di Meloni, l'unità di intenti degli alleati e la debolezza degli avversari sono tra i fattori cui in genere fanno riferimento coloro che, a grandi linee, valutano positivamente il successo della destra. Gli analisti che giudicano in maniera opposta il successo di Meloni e della sua coalizione invece puntano il dito sul pericolo di una deriva autoritaria nel nostro Paese e attribuiscono la crescita di consensi per FdI al fatto che questo partito negli ultimi anni sia stato all'opposizione e, da questa posizione di comodo, avrebbe alimentato quei sentimenti di insofferenza per la condizione presente che poi si sono tradotti in un inequivocabile successo nelle urne.
La coerenza politico-culturale di Meloni, l'unità di intenti degli alleati e la debolezza degli avversari sono tra i fattori cui in genere fanno riferimento coloro che, a grandi linee, valutano positivamente il successo della destra
Eppure, c'è un fattore che viene scarsamente tematizzato o spesso rimane sullo sfondo. Al massimo viene tirato in ballo esclusivamente in termini propagandistici dai sostenitori della coalizione risultata vincente. Ci riferiamo al fatto che Meloni e i suoi alleati (anzi, per essere più precisi, principalmente Meloni e FdI) siano riusciti a trasmettere all'elettorato un'idea di società da realizzare con gli strumenti della politica. Certo, si tratta di un'idea parziale e per certi versi incompleta e contraddittoria: il filoatlantismo degli ultimi mesi è quantomeno sospetto, considerata la consueta vicinanza di Meloni a Putin e la mai rinnegata comunione di intenti con Viktor Orbán. È un'idea di società che molti – compreso chi scrive – ritengono inadeguata ai tempi, una concezione che potrebbe essere vista anche come causa di un possibile arretramento rispetto ad alcune questioni fondamentali, si pensi innanzitutto ai diritti civili. E tuttavia, pur con tutti i limiti e le cautele del caso, Meloni è stata capace di elaborare una visione, un obiettivo politico da perseguire.
Con questo non si vuole certamente sostenere che la leader di FdI abbia costruito una visione sistematica di società. Non ci spingiamo fino a scrivere che Meloni abbia una Weltanschauung coerente, e che abbia indicato i mezzi per realizzarla pienamente. Di sicuro non è questo, e non lo è mai stato, il compito di una classe dirigente che si proponga di governare un Paese complesso come il nostro. Eppure, non si può sostenere che Meloni pecchi di vaghezza nei suoi discorsi pubblici. Per esempio, quando nel giugno scorso è andata in Spagna per sostenere Macarena Olona alla presidenza dell’Andalusia, a tutti è risultato chiaro quali fossero i suoi obiettivi e la sua concezione di società: «No alla lobby Lgbt! No violenza islamista! No all’immigrazione! No alla grande finanza internazionale! Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt, sì alla identità sessuale, no alla ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no a quella della morte, sì ai valori universali cristiani. Sì alla sovranità del popolo, no ai burocrati di Bruxelles, sì alla nostra civiltà e no a chi vuole distruggerla».
Anche dal punto di vista economico, la visione di società che la destra ha offerto all’elettorato è sufficientemente chiara. Le tasse sono ingiustamente troppo alte, e sarebbe opportuno adottare misure come la flat tax. Il reddito di cittadinanza, così com’è, alimenta il parassitismo e non stimola l’innovazione, per cui dovrebbe essere rivisto in maniera sostanziale. Anche i fondi del Pnrr, per ovvie ragioni al centro della campagna elettorale di tutti gli schieramenti, secondo Meloni devono essere gestiti in maniera diversa da come si è fatto finora. In questo ambito, FdI propone di tener presenti i mutamenti dello scenario globale che si sono prodotti come conseguenza dell’invasione dell’Ucraina da parte russa. Dunque, secondo il partito di Meloni, sarebbe opportuno «destinare maggiori risorse all’approvvigionamento e alla sicurezza energetici, liberare l’Italia e l’Europa dalla dipendenza dal gas russo, e mettere al riparo la popolazione e il tessuto produttivo da razionamenti e aumenti dei prezzi».
Già a partire da questi brevi cenni, è facile comprendere come il programma politico della destra abbia in sé degli elementi conservatori (perfino reazionari, si potrebbe dire) che sono difficilmente accettabili alla luce delle conquiste civili degli ultimi decenni. Anche dal punto di vista economico, le ricette della destra potrebbero essere irrealizzabili, in quanto richiedono risorse di cui lo Stato non dispone, oppure potrebbero cancellare quei meccanismi di redistribuzione della ricchezza che sono necessari a rendere concrete le promesse egualitarie della nostra Costituzione.
Eppure, è innegabile che gli elettori di Meloni avessero chiaro il modello di società a favore del quale hanno votato. Si tratta, a nostro avviso, di un ritorno della politica come ambito dell’attività umana in cui si compiono scelte che contribuiscono a determinare l’assetto che vogliamo dare alla società in cui viviamo. È una visione piuttosto standard della politica, che però acquista una portata non trascurabile in un periodo di governi tecnici e/o di emergenza, in cui l’azione politica ha ceduto il passo alla necessità di scelte presentate come ineludibili o tecniche, per utilizzare un termine molto in voga. Pur con tutti i suoi limiti, la destra che ha appena vinto le elezioni ha interpretato le sofferenze sociali e ha proposto un modello di società e di azione politica che si presume possa superarle, senza fare appello all’idea che la durezza del momento storico che stiamo attraversando imponga scelte in qualche modo obbligate, che sono a ben vedere la negazione della politica.
Non si può dire la stessa cosa per coloro che hanno votato i partiti usciti sconfitti dalle elezioni del 25 settembre, in particolare il Pd. Il partito di Letta non ha offerto agli elettori un’idea di società chiara e distinta. In un primo momento, ha sostenuto la tesi per cui, data la particolare contingenza storica in cui ci troviamo (crisi socioeconomica, pandemia, guerra) esistono dei percorsi obbligati da seguire, e la cosiddetta agenda Draghi, qualunque cosa essa significhi, sarebbe la stella polare che deve orientare l’azione politica. Dopo, soprattutto quando è emerso che il Movimento Cinque Stelle si stava accreditando come partito progressista presso ampi settori svantaggiati della società, il Pd si è presentato sic et simpliciter come partito del lavoro, senza però aggiornare questa nozione a seguito dei mutamenti sociali verificatisi negli ultimi decenni.
Stare sempre e comunque al governo per via di presunte necessità storiche che impongono decisioni obbligate non ha giovato al Pd. E ha messo in secondo piano il fatto che dalle crisi si può uscire grazie all’azione politica
Stare sempre e comunque al governo per via di presunte necessità storiche che impongono decisioni obbligate non ha dunque giovato al Pd in termini elettorali. Questa strategia ha però messo in secondo piano che dalle crisi si può uscire grazie all’azione politica, e che non tutte le azioni e le scelte politiche si equivalgono. La campagna elettorale appena conclusa, dopo anni in cui la distinzione destra-sinistra era stata messa in dubbio, ha dimostrato che vi possono essere proposte di destra e proposte di sinistra. Le prime sono apparse in maniera sufficientemente chiara e hanno ottenuto un esito positivo in termini di voti. Le seconde invece stentano ancora a definirsi in maniera concreta. Non esistono, in altri termini, soluzioni tecniche che siano neutre dal punto di vista dei valori politici di riferimento.
Guerre, pandemia e crisi economica non finiranno tra pochi mesi, o almeno le conseguenze che questi eventi hanno generato ci daranno da fare per un lungo periodo. Condizioni in qualche modo emergenziali stanno diventando la norma in cui si situa l'azione politica. Collocare la politica in questo quadro di «normalità dell'emergenza» è lo sforzo che tutti dovremmo compiere. È uno sforzo enorme, senza garanzie di riuscita. Più politica, meno emergenza. O, se preferite, più democrazia. La destra, pur tra tanti limiti, ha capito che dalle situazioni di crisi si esce con più politica. È auspicabile che anche la sinistra, in questo processo di ridefinizione della propria identità che si avvia all’indomani di una grave sconfitta elettorale, si incammini lungo questo percorso.
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