La festa dell’Indipendenza, che la Tunisia celebra il 20 marzo, quest’anno ha coinciso con due pesanti prese di posizione delle istituzioni europee nei suoi confronti. Ha esordito il 16 marzo il Parlamento europeo con una risoluzione che esprime “profonda preoccupazione per la deriva autoritaria in Tunisia”, condanna il discorso del presidente Kais Saied sulla migrazione subsahariana come parte di un disegno criminale e chiede la sospensione dei programmi di sostegno Ue ai ministeri dell’Interno e della Giustizia. Gli ha fatto seguito, il 20 marzo, l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell, definendo la situazione in Tunisia “molto pericolosa” e a rischio di un “collasso economico e sociale” con conseguente aumento dei flussi migratori e dell’insicurezza della regione.
La ricorrenza ha fornito al presidente tunisino – che ha lasciato la replica formale al suo ministro degli Esteri – l’occasione per rilanciare attraverso i media la narrativa delle “ingerenze straniere contro la sovranità nazionale”. Ad essa si collegano quelle accuse di “complotto contro la sicurezza dello Stato” che nel mese trascorso hanno portato in galera decine di leader e attivisti dei movimenti di opposizione – professori, avvocati, giudici, giornalisti – accusati perlopiù di “incontri con diplomatici stranieri”, mentre i loro avvocati difensori sono oggetto di misure intimidatorie quali il divieto di espatrio o un mandato di comparizione.
A fronte di tutto ciò, l’opinione pubblica tunisina non ha fatto una piega. Anzi, spiega M.A., già consulente politico del precedente governo: “I recenti arresti hanno accresciuto la popolarità di Saied”. Colloqui informali lo confermano. Un tranquillo pensionato dell’amministrazione pubblica s’infervora: “Sono dei ladri, dei farabutti, per fortuna il nostro presidente sta cominciando a fare piazza pulita”. Incalza una giovane impiegata: “Se sono in prigione qualcosa avranno pur fatto”. Conclude una casalinga: “Adesso sì che le cose iniziano a cambiare”.
All’opinione pubblica vengono date in pasto notizie di arresti a livelli sempre più alti e in tutte le direzioni dello spettro politico. Prende forma così il mix tra consolidamento autoritario e costruzione del consenso del regime
Infatti subito dopo il colpo di Stato – ricorda Mahmoud Ben Mabrouk che di Kais Saied è un grande sostenitore – “il popolo si aspettava incarcerazioni di massa di buona parte della classe politica post rivoluzione”, anche a seguito di una martellante campagna sui social contro “i corrotti e traditori del Paese”. In realtà l’ondata repressiva, iniziata con discrezione subito dopo il 25 luglio 2021, si è andata intensificando in parallelo allo smantellamento sistematico di tutti gli acquis della Rivoluzione. Oggi, mentre l’opposizione si trova privata delle garanzie giuridiche elementari e delle libertà di espressione e di assemblea, all’opinione pubblica, esacerbata da un’inflazione a due cifre, una disoccupazione che si avvicina al quinto della popolazione attiva e una penuria di generi di prima necessità mai conosciuta, vengono date in pasto, giorno per giorno, notizie di arresti a livelli sempre più alti e in tutte le direzioni dello spettro politico. Prende forma così il mix tra consolidamento autoritario e costruzione del consenso del regime. Che funzioni lo si vede in questi giorni di inizio del ramadan. Dopo il tramonto le grandi arterie della capitale e i vicoli della medina si animano di una movida fatta soprattutto di quel ceto medio dato per scomparso e di giovanissimi delle periferie disagiate, incuranti i primi dell’inflazione, lontani i secondi da velleità di protesta.
Ma come mai le istituzioni europee si svegliano solo adesso, dopo che voci autorevoli hanno denunciato la deriva autoritaria sin dall’indomani del colpo di Stato? Perché hanno continuato a mantenere imperterrite la loro “apertura di credito” a Kais Saied e addirittura a finanziare programmi di sostegno ai ministeri degli Interni e della Giustizia, che da tempo agiscono al di fuori degli standard di uno Stato di diritto? Se all’origine di questa brusca virata ci sono – come appare dal timing – i propositi tenuti da Kais Saied sull’immigrazione subsahariana (un probabile errore di strategia comunicativa del presidente, che contava su un certo consenso dell’opinione pubblica nazionale ma non si aspettava una levata di scudi dei partner occidentali) vuol dire che ci troviamo di fronte a una ridefinizione della difesa dei nostri interessi centrati sul blocco delle migrazioni. Perché se la Tunisia venisse dichiarata “porto non sicuro” per i migranti subsahariani non solo non sarebbero possibili i respingimenti – tantomeno se affidati alla Guardia costiera tunisina – ma si aprirebbero le porte del diritto di asilo ai tunisini stessi, che non sarebbero più “migranti economici”.
Se la Tunisia venisse dichiarata “porto non sicuro” per i migranti subsahariani non sarebbero possibili i respingimenti e si aprirebbero le porte del diritto di asilo ai tunisini stessi, che non sarebbero più “migranti economici”
Quanto al possibile collasso economico del Paese la domanda da porsi è piuttosto come mai non ci sia ancora stato. La Tunisia era già data sull’orlo del default alla vigilia del 25 luglio 2021, tant’è vero che nei mesi successivi proprio sull’insostenibilità economica l’opposizione basava le sue aspettative di un rapido crollo del regime che invece non c’è stato e continua a non esserci. Che cosa tiene ancora in piedi il sistema non è chiaro – se la Banca Centrale Tunisina, i beni in natura che arrivano dall’Algeria e addirittura dalla Libia, o i doni monetari in arrivo dai Paesi del Golfo. Certo è invece che la vicenda dell’atteso prestito del Fmi si configura sempre più come una telenovela a puntate, con i negoziati che avanzano, si fermano, riprendono, senza che ormai nessuno anche solo finga di ignorarne i condizionamenti politici internazionali.
Certo, le famiglie che ogni sera sciamano nei caffè, ristoranti e negozi, i bambini che tirano tardi complici le vacanze scolastiche, potrebbero rappresentare una folla di incoscienti che balla sul ponte del Titanic mentre cova lo scontento nelle regioni interne e nelle bidonvilles urbane. Ma non è affatto sicuro che la nave affondi. Appare più probabile invece che la Tunisia sia avviata ad un nuovo ventennio di stampo benalista. E che l’Italia e l’Europa si accorgano troppo tardi che in termini di razionalità di scopo e non solo di valori avrebbero avuto tutto l’interesse a sostenere meglio la transizione democratica tunisina, anche allargando un poco i cordoni della borsa e gli uffici dei visti. E accordando un po' di credito ad una leadership democratica ancorché islamica anziché puntare su un dittatore che si ispira al Libro Verde di Gheddafi.
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