C’è un fenomeno che si pensava relegato alle pagine dei libri di storia, o presso genti e terre lontane, e invece si trova nel cuore delle città occidentali. È la tratta degli esseri umani: riguarderebbe, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), quasi 50 milioni di persone che vengono sfruttate a livello sessuale, lavorativo, per accattonaggio e attività illegali. Si è trattato di uno scivolamento progressivo dello sguardo (e delle scelte individuali), frutto di un immaginario colonizzato che ha portato gli occhi dei più a considerare normale l’esposizione di corpi lungo le strade. Così come di persone accatastate in baracche dove la vita sembra essere senza possibilità di scelta, come se la libertà fosse incastonata in una sorta di servitù volontaria.

Per le ragazze nigeriane il vincolo si chiama gbesé (debito). Un «prestito» economico e morale, ineludibile se non con la morte, che migliaia di donne devono restituire all’organizzazione che le ha fatte arrivare in Italia. Un fenomeno complesso che segue varie diramazioni, pur avendo un medesimo approdo: il marciapiede. Le modalità di arrivo sono diverse: c’è, soprattutto per le donne provenienti da Benin City, la forma «contrattuale» del debito; per le donne provenienti dall’Est Europa ci sono invece i «fidanzati», che attraverso un mix di ricatti psicologici, violenze fisiche e minacce tengono ancorate le donne a una trappola da cui sembra non esserci via di uscita.

Tuttavia, come spiegano Federico Varese e Paolo Campana (La cooperazione nelle organizzazioni criminali: il ruolo della violenza e della parentela, in Riconoscere le mafie, a cura di M. Santoro, Il Mulino, 2015), i dati non sono sempre chiari. «Soprattutto c’è confusione tra trafficking e smuggling (tratta e traffico). Il nostro sospetto è che il trafficking, in senso proprio, sia un fenomeno raro anche se ovviamente molto grave per la vittima». Secondo il Dipartimento di Stato americano e Unodoc le vittime sarebbero 25 milioni, ma i procedimenti penali in corso riguarderebbero solo 50 mila vittime in 148 Paesi. I problemi principali riguardano l’identificazione delle vittime e il sequestro dei patrimoni dei criminali dediti allo sfruttamento. Il primo aspetto (a parte alcuni punti di vista prettamente legislativi presenti in alcuni Paesi) deriva anche dalla mancata consapevolezza delle vittime. Proviamo a capire perché.

Ho avuto modo di incontrare decine di ragazze presso una struttura protetta, parlare, partecipare a momenti di confronto di gruppo ed è emersa continuamente la scarsa consapevolezza dell’essere vittime, oppure, anche se c’è una minima percezione, lo sfruttamento viene considerato come un prezzo da pagare per entrare in Europa, per migliorare le proprie condizioni di vita. Di conseguenza come spiega Gerhard Joszt, «le vittime sono poco inclini a denunciare i propri sfruttatori, soprattutto perché non hanno piena percezione e consapevolezza della condizione di sfruttamento, anche se vi è una maggiore consapevolezza, in generale, da parte delle donne dell’Est Europa, mentre le donne nigeriane raramente prendono in considerazione il fatto di essere vittime».

È emersa continuamente la scarsa consapevolezza dell’essere vittime, oppure, anche se c’è una minima percezione, lo sfruttamento viene considerato come un prezzo da pagare per entrare in Europa, per migliorare le proprie condizioni di vita

Anche nei luoghi di prima accoglienza c’è una forte presenza di condizionamenti esterni. Infatti, dopo essere sbarcate, tutte le ragazze sono inserite nei centri di accoglienza; qui, a seconda delle indicazioni che ricevono da fuori, continuano a rimanere fino all’ottenimento dei documenti. Oppure escono, come spiega Faith: «Perché ti dicono di uscire e tu pensi che tanto a te non succederà niente perché tu hai un familiare che ti ha portato qui… e quindi ti fidi… I parenti non ti fanno male, non ti picchiano, ti dicono che ti fanno pagare di meno, ma comunque devi andare in strada».

Anche nei confronti di chi le sfrutta emergono distinzioni sorprendenti: infatti, per le ragazze vi sono madame buone, «quelle che ti trattano bene, che non ti fanno uscire quando è freddo, che ti fanno mandare soldi a casa…», e madame cattive, «quelle che ti trattano male e che picchiano», come racconta una ragazza: «Quando sono arrivata la mia madame non mi ha dato il tempo di bere neanche un bicchiere d’acqua perché dovevo andare sulla strada». Da parte di alcune ragazze c’è anche un certo senso di riconoscenza nei confronti delle madame perché le hanno tolte dalla povertà e le permettono di aiutare le famiglie (le madame vengono chiamate sorella, zia). Faith ad esempio racconta che la sua madame è stata buona: «Mi ha detto: "Rimani nel centro, stai lì finché non ti danno il primo documento". Sono stata 9 mesi nell’accoglienza… Poi mi ha portato in Questura».

C’è un senso di colpa, il sentirsi sbagliate e inferiori che impedisce alle ragazze di vedere e comprendere la propria condizione. Una volta, racconta un’operatrice, «è arrivata una ragazza dopo un ricovero in ospedale: la madame l’aveva picchiata così tanto da toglierle lo scalpo. Con un coltello le aveva tolto tutta la calotta cranica e il suo corpo era pieno di cicatrici di sigarette spente sulla pelle. Nel periodo che è stata qui più volte le ho chiesto cosa provasse nei confronti della donna che le aveva fatto questo e lei ogni volta mi rispondeva: "Non provo nulla… non sono arrabbiata con lei: lei voleva solo i suoi soldi, sono io che ho la testa dura e non volevo andare a lavorare [prostituirsi] e allora lei mi picchiava perché voleva i suoi soldi… La colpa è mia"».

Anche le ragazze che ritengono le madame cattive non hanno chiarezza del tipo di sfruttamento di cui sono vittime. Infatti, quando parlano della loro esperienza, evidenziano rivendicazioni di tipo sindacale nei confronti di chi le ha sfruttate: «Mi faceva pagare troppo i vestiti, il cibo era troppo caro, l’affitto troppo caro, non bisognerebbe far uscire le ragazze quando è freddo, quando piove». Non distinguono chiaramente prostituzione, sfruttamento e lavoro. E a domanda precisa, la differenza tra lavoro e prostituzione consisterebbe nel fatto che «nel lavoro ricevi i soldi una volta al mese, mentre nella prostituzione ogni giorno, ogni minuto. Chi lavora ha degli orari, nella prostituzione non ci sono orari».

Ma la storia non finisce qui. Col tempo, con gli incontri e la permanenza nel centro di accoglienza, emerge la consapevolezza e la percezione dello sfruttamento: «Per me non esistono madame buone (adesso quando si parla di madame buone tutte le ragazze si mettono a ridere) o madame cattive… Sono tutte uguali perché alla fine tutte vogliono i soldi. Chi ti tratta con morbidezza sa che è il modo per non farti scappare. Non può essere buona una persona che ti rovina la vita. Non è buona una persona che mi chiede di andare in strada e farmi toccare il corpo. I trafficanti non violenti non sono buoni! Sono solo più furbi […]. Ci hanno fatto un lavaggio del cervello fino a un punto di non ritorno… ci hanno fatto credere che davvero queste persone ci hanno aiutate e quindi non riusciamo a vedere tutto il male che ci hanno fatto. Mi ricordo che quando le madame si incontravano iniziavano a dire: la mia ragazza mi porta a casa tanti soldi… come mai la tua no? La mia ragazza in sei mesi ha finito di pagare il suo debito… Allora tu che sei lì e che ascolti, inizi a pensare che tutto sommato sei fortunata perché la tua madame è buona, non ti picchia, ti loda davanti agli altri, ma è tutta una messa in scena: le violenze non sono solo fisiche, ma anche psicologiche».

Anche se una di noi stesse soffrendo la fame, spiega Joyce, «non è un aiuto farmi passare dalla fame alla strada». Tra chi approfitta delle ragazze, a volte, ci sono le stesse famiglie di origine e in alcuni casi persino i responsabili del culto: «Sono andata in chiesa per parlare con il pastore, ma non mi sono sentita sollevata. Lui ha tenuto gli occhi puntati sul mio seno così a lungo che ho avuto paura di rimanere incinta». Come racconta Fatima: «Io ho pensato tanto a queste cose… e un giorno mi sono detta perché dobbiamo sacrificarci per la nostra famiglia vendendo il nostro corpo? Se io fossi morta durante il viaggio, i miei mi avrebbero già dimenticata! Se io muoio adesso i miei familiari sentiranno non la mia mancanza, ma la mancanza dei soldi che io mandavo loro».

Anche gli stessi luoghi di accoglienza sono chiamati dalle ragazze prison (prigioni), ma poi aggiungono: "Una vita migliore richiede pazienza. Non c’è una bella vita senza regole"

Anche gli stessi luoghi di accoglienza sono chiamati dalle ragazze prison (prigioni), ma poi aggiungono: «Una vita migliore richiede pazienza. Non c’è una bella vita senza regole. Bisogna andare a scuola. Una bella vita richiede regole che bisogna rispettare; per avere una vita migliore devi cambiare… avere una vita migliore non è così semplice».

Alla fine, dopo diversi mesi, le ragazze identificano la tratta con la schiavitù (che assume i connotati di una schiavitù volontaria, sfruttamento consensuale).

«Per me quando ti prostituisci non hai dignità come donna, vendi il tuo corpo. Quando poi ti guardi allo specchio non ti vedi neanche più come una donna. Neanche più gli uomini ti trattano come una donna. Quando si lavora anche per uno stipendio misero, ma si mantiene la dignità, questo è un lavoro». I want to change my life, ripetono tutte. «Io penso che nonostante quello che abbiamo passato», sostiene Faith, «nonostante le circostanze, in qualsiasi situazione è necessario pensare alla nostra dignità, al nostro futuro poiché c’è sempre una via di uscita». «Noi», prosegue Elisabeth, «abbiamo ancora speranza e nessuno ci può dire che non abbiamo futuro, che non possiamo avere una buona vita: tutto ciò che facciamo dipende dalle nostre scelte».

La maggiore consapevolezza fa però emergere il dolore (e una tregua fa emergere la sofferenza che c’era anche prima, anche se rimaneva schiacciata dalla quotidianità), pertanto durante l’accoglienza possono emergere situazioni di «regresso», di ritorno da fidanzati che dicono «se lo hai fatto per la madame fallo anche per me che ti amo», ritorna l’idea di ripagare almeno in parte il debito, ritornano timori e paure un po' come se fosse scesa l’adrenalina della libertà. Ritornano a sentire in modo forte le pressioni della famiglia che prima ti esaltava per la tua generosità e ora ti maledice, così come gli amici ti dicono che adesso «sei vestita come una ragazza di Porta Palazzo», non sei più bella ed elegante.

L’impatto è significativo perché anagraficamente sono adolescenti anche se hanno l’esperienza di una persona anziana, quindi sono molto soggette alle opinioni altrui. Emerge la mancanza di adulti di riferimento positivi. La mancata percezione dello sfruttamento implica il rischio che a loro volta le vittime diventino, come è accaduto negli ultimi venti anni, madame oppure, una volta ottenuti i documenti, riprendano l’attività in strada. Un processo di madamizzazione capace di mutare i ruoli, ma non la violenza. Fatti che la storia non vuole e non potrà raccontare se oggi agiamo.