«Per la Germania comincia un’epoca con il vento contrario»: così si è espresso qualche giorno fa il presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeier in un discorso sullo stato della nazione; un intervento di grande spessore per cogliere le trasformazioni della politica e del dibattito pubblico tedesco.
La guerra di Putin è destinata a cambiare profondamente l’Europa e il presidente ammette che i tempi a venire non saranno facili. Si può e si deve intervenire per aiutare i cittadini, certo, ma non sarà semplice e soprattutto la politica «non può fare miracoli». Per i limitati poteri che la Legge fondamentale, la Costituzione tedesca, attribuisce al Bundespräsident, Steinmeier può solo cercare di avvertire che ci attendono anni non semplici. E provare a ipotizzare un percorso al termine del quale il Paese e il resto d’Europa potrebbero uscirne diversi ma rafforzati.
Il discorso di Steinmeier parte analizzando gli ultimi trent’anni, quelli con il vento in poppa. Inaugurati dalla riunificazione del 1989-90, dalla fine dei blocchi e dall’integrazione europea. Certo, ci sono state anche tante sfide difficili, ma questa volta è diverso: «Il 24 febbraio Putin non ha solo infranto le regole e abbandonato la partita. Ha rovesciato tutta la scacchiera!». Il presidente federale sa che il suo Paese dovrà giocare un altro ruolo. Lo dice da subito, quando parla della centralità dell’esercito e degli investimenti che il governo ha deciso di effettuare per rafforzare la Bundeswehr (il fondo di cento miliardi). Una cosa destinata inevitabilmente a modificare i rapporti nel continente: la Germania non sarà più (soltanto) potenza civile e dovrà evitare anche un nuovo cammino in solitaria.
Il presidente tedesco è consapevole che un ruolo guida comporta anche critiche aspre, connesse con il ruolo di un Paese che si candida ad assumere sempre più responsabilità Così Steinmeier da un lato deve convincere i tedeschi della bontà di questi investimenti e della necessità di un rapporto diverso con l’esercito. Quindi: «La società ha bisogno di un esercito forte ma l’esercito ha bisogno di una società che gli dia coraggio». Dall’altro, deve tranquillizzare i partner europei sull’ancoraggio di questa scelta al sistema di difesa continentale: «Voglio assicurare ai nostri alleati che la Germania assume la sua responsabilità nella Nato e in Europa». Ma è anche consapevole che questo ruolo guida comporta critiche aspre, che sono connesse con il ruolo di un Paese che si candida ad assumere sempre più responsabilità: «Dovremo abituarci al fatto che il nostro Paese stia al centro delle critiche. Se guardiamo gli Stati Uniti […] che sono una potenza globale, vengono criticati per quello che fanno e per quello che non fanno. Non possono guardare ad altri o fare appello a una istanza superiore. Devono sapere quello che fanno e perché».
È questa la conseguenza più direttamente rilevante per la Germania dopo la rottura epocale, Epochenbruch, del 24 febbraio e della guerra di Putin: il nuovo ruolo della Repubblica federale, chiamata a tirare le fila dell’unità continentale. Ma, Steinmeier lo dice chiaramente, «questo significa congedarsi da vecchi schemi concettuali e speranze». A che cosa si riferisce?
Frank-Walter Steinmeier è stato il vero architetto della politica estera tedesca degli ultimi vent’anni. Durante il cancellierato di Schröder era il capo della cancelleria federale, un incarico delicato, spesso nascosto, di coordinamento delle attività di tutto il governo. Non di rado, il successo politico di un cancelliere dipende dall’abilità del suo Chef des Bundeskanzleramtes. Ma bisogna tornare al 2005 e alla risicata vittoria elettorale di Angela Merkel perché Steinmeier acquisti un profilo di primissimo piano, come vicecancelliere e ministro degli Esteri. Nel 2005 Schröder compie un mezzo miracolo: recupera nei sondaggi e, seppur perdendo le elezioni, fa in modo che Merkel non le vinca. Un pareggio, insomma, dal quale viene fuori la Grande coalizione tra Spd e conservatori, dal 2005 al 2009. Esperimento poi ripetuto dal 2013 fino allo scorso anno. E Steinmeier sarà sempre agli Esteri, almeno fino al 2017 quando sarà poi eletto presidente federale (rieletto lo scorso febbraio per un secondo mandato).
Come ministro degli Esteri è l’ideatore di quella politica con la Russia nota come Wandel durch Handel. In pratica si tratta di una nuova fase della Ostpolitik: Brandt negli anni Settanta (ma la teorizzazione risale al 1963) poteva puntare sulla coesistenza pacifica tra i blocchi e immaginare un cambiamento, una trasformazione tramite l’avvicinamento, vale a dire Wandel durch Annährung. Steinmeier, invece, parte dal presupposto di Brandt (in Europa la pace è possibile solo con la Russia, non contro di essa) e scommette su una serie di connessioni economiche per avvicinare i due Paesi e legarli da rapporti commerciali in modo che una guerra non convenga a nessuno. Era un calcolo ingenuo? Oggi è facile dirlo, ma in realtà Steinmeier, che pure non ha mai sottovalutato le trasformazioni del regime putiniano verso un modello sempre più autoritario, è stato tra i primi a parlare esplicitamente di interessi europei, a declinarli e a definire con la Russia delle relazioni che non volevano produrre significative trasformazioni, almeno nel breve periodo, del sistema politico russo. Del resto, nemmeno la Ostpolitik di Brandt puntava nell’immediato a una trasformazione in senso democratico dell’Unione sovietica.
Probabilmente a queste connessioni economiche serviva anche altro: un coinvolgimento pieno e diretto dei Paesi dell’Europa orientale, che da sempre avvertono la politica di Mosca come minacciosa e quella tedesca come troppo accondiscendente. Una maggiore unità politica dell’Europa nel trattare con la Russia. Una credibile politica di difesa e sicurezza comune che passasse anche da un esercito comune, capace di esercitare un’azione di deterrenza.
Dire addio al gas russo può significare l’accelerazione verso una economia “verde” senza per questo perdere posti di lavoro
Oggi Steinmeier prova ad affrontare politicamente e collocare storicamente la nuova realtà scaturita dal 24 febbraio. Il mondo che anche lui aveva provato a plasmare non c’è più: «Quando oggi guardiamo alla Russia non c’è più spazio per vecchi sogni. I nostri Paesi sono uno contro l’altro». Tuttavia, qualcuno potrebbe contestare queste formulazioni perché Steinmeier – come del resto Angela Merkel – non crede di aver sbagliato, non accenna ad errori. Ed è una impostazione condivisibile: la linea perseguita nei due scorsi decenni forse era lacunosa, probabilmente necessitava di ulteriori sforzi ma era nel complesso corretta, quantomeno nella definizione dei suoi obiettivi. Dal 24 febbraio, però, le cose cambiano in modo radicale. Da qui la necessità per Steinmeier di proseguire con le sanzioni («Quale sarebbe l’alternativa? Assistere passivamente a questa aggressione criminale?»), continuare a sostenere l’Ucraina, anche militarmente, evitare che la guerra si radicalizzi verso una escalation nucleare. L’attacco russo palesa ancor di più come grandi sistemi si confrontino tra loro e il pensiero va subito anche alla Cina. Ma questo non significa che questi blocchi non debbano parlarsi per provare ad affrontare insieme le sfide di tutta l’umanità, a partire dal cambiamento climatico : «Dobbiamo fare in modo che in futuro continuino ad esserci istituzioni e cooperazione che impediscano la formazione di un nuovo confronto tra blocchi. Una bipartizione del mondo nella quale “noi contro di loro” non è nel nostro interesse». Torna qui chiaramente il politico esperto delle “connessioni” come mezzo per evitare conflitti radicali e della chiara formulazione di autonomi interessi continentali: l’Europa come “potenza di centro”, che media ed evita radicalizzazioni: ecco perché tanto il presidente federale che il cancelliere Scholz sanno che con la Cina bisogna continuare a tenere aperto il dialogo, senza fare sconti sui diritti ma evitando una rottura totale. Come pure facendosi prendere dal panico per ogni operazione commerciale, come quella, tutto sommato di modesta entità, nel porto di Amburgo.
È un cammino stretto e complicato, quello descritto da Steinmeier, e tuttavia necessario. Il presidente lo sa, lo dice chiaramente: «Volere la pace ma inviare armi al fronte, sostenere una delle parti in guerra, ma non voler diventare parte di questa guerra, stabilire sanzioni contro altri, ma essere danneggiati noi stessi: si tratta di contraddizioni, lo so, e ogni giorno ascolto come i tedeschi siano scettici e a volte si disperino. Per noi tedeschi è un banco di prova».
Ecco perché il resto dell’intervento è dedicato prevalentemente proprio ai suoi concittadini: Steinmeier prova a incoraggiarli e a spronarli perché dalla crisi il Paese può uscirne rafforzato. Dire addio al gas russo può significare l’accelerazione verso una economia “verde” senza per questo perdere posti di lavoro. E da questa prova può uscirne rafforzata la democrazia, che Steinmeier definisce «una delle nostre infrastrutture critiche». Riprende anche la sua idea, contestata, di un periodo obbligatorio per i giovani nelle attività sociali, che dovrebbe rafforzare la coesione del Paese. Che per Steinmeier è il presupposto indispensabile per far fronte alle sfide dei nostri tempi. Lentamente e cercando di non spezzare l’esile unità continentale sta venendo fuori una nuova politica europea tedesca a partire dalla consapevolezza del proprio ruolo.
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