Nel dibattito pubblico sull’istruzione, opinioni e commenti si riconducono principalmente a due filoni. Da una parte si collocano i promotori delle tecnologie didattiche, che predicano la non frontalità e la personalizzazione della didattica, per poi proporre modelli procedurali di lezione e valutazione secondo schematismi di stile ingegneristico. Questi innovatori si mostrano sicuri di possedere e poter trasmettere soluzioni definitive pronte all’uso nella propria «cassetta degli attrezzi»: la chiamano proprio così; e spesso ne vendono o ne sponsorizzano una. Fa da contraltare il rifugio sconsolato nel mala tempora currunt come criterio analitico per identificare le cause dello scenario attuale e delinearne le prospettive, condito di compassione paternalistica nei confronti degli insegnanti da parte di estranei alla categoria. Per quanto comprensibile, questa reazione è spesso accompagnata da poco calibrate levate di scudi a difesa di una cultura, non meglio definita, delle lingue antiche, dei classici, della tradizione, di una fantomatica matematica pura. Così, attribuendo la colpa ai “tempi che corrono”, ma anche in modo generico ai tagli della spesa, si impedisce un’analisi di merito dei processi storico-politici che hanno determinato la situazione attuale.
La scorsa estate (a luglio 2023) è stato firmato il contratto collettivo nazionale del comparto istruzione relativo al triennio 2019-2021; l'esito del processo di contrattazione, complice l’inaccettabile ritardo nella sua conclusione, è una perdita del potere d’acquisto della categoria.
Il declino delle condizioni degli insegnanti in Occidente costituisce una tendenza ormai strutturale, ma che presenta tuttavia caratteristiche disomogenee e fenomeni di resistenza. Nella primavera del 2023 in Romania, a seguito di importanti e prolungati scioperi che, tra le altre cose, hanno determinato la soppressione della sessione annuale degli esami di maturità, gli insegnanti hanno ottenuto un aumento stipendiale del 25%. Di questa così come di altre enormi mobilitazioni intraprese in diverse nazioni dai lavoratori dell’istruzione, come ad esempio quelle del 2019 in Polonia o altre in Francia e Stati Uniti, si trovano tracce assai rare nella stampa generalista italiana e nelle dichiarazioni dei nostri sindacalisti ed esponenti di partito. Inoltre, come emerge ad esempio dal recente rapporto Eurydice, Teachers' and school heads' salaries and allowances in Europe, in Germania, Spagna, Portogallo, Francia e in altri Paesi europei il rapporto tra gli stipendi dei docenti e il Pil pro capite è sensibilmente più alto che in Italia.
Nel passato, adeguamenti salariali analoghi a quello conseguito in Romania sono stati ottenuti anche nel nostro Paese. Nel 1988, a seguito di un biennio di grande mobilitazione coordinata da comitati di base combinando diverse giornate di sciopero con il blocco degli scrutini e la sospensione delle adozioni dei libri di testo, il comparto scuola ottenne un rinnovo del contratto con aumenti salariali medi del 47% e la definizione del numero massimo di 25 alunni per classe, oggi spesso evaso (una raccolta di cronache delle mobilitazioni pubblicate sul quotidiano “La Repubblica” è reperibile qui).
Nel 1988, a seguito di un biennio di grande mobilitazione, il comparto scuola ottenne un rinnovo del contratto con aumenti salariali medi del 47% e la definizione del numero massimo di 25 alunni per classe, oggi spesso evaso
È utile ricordare alcuni fatti se si vuole capire perché oggi in Italia una concreta messa in discussione delle condizioni degli insegnanti, come accadeva quarant’anni fa e come accade oggi in altre democrazie (anche relativamente giovani come quella romena), non è più possibile.
1. In passato lo stipendio degli insegnanti era definito per legge ed erano previsti adeguamenti salariali automatici al costo della vita, come accade ancora oggi per altre categorie del comparto pubblico. L’introduzione del Contratto collettivo nazionale dei lavoratori della scuola, fatto salvo l’episodio dell’88 e qualche contingenza minimamente favorevole (come quella a cavallo del cambio di millennio), si è rivelata tutt’altro che vantaggiosa per gli insegnanti in termini di valore reale dei salari: ad esempio, secondo i dati della Ragioneria di Stato, il divario tra la retribuzione media dei dipendenti pubblici, non certo un riferimento di particolare agiatezza economica, e quella relativa al solo comparto scuola è aumentato nello scorso decennio fino a sfiorare il 20%. Inoltre, rispetto alla maggior parte dei lavoratori del terziario, gli insegnanti non dispongono di buoni pasto, rimborsi o assicurazioni per le spese mediche, giornate di lavoro da casa, discrezionalità nella scelta dei giorni di ferie e del giorno di secondo riposo settimanale, flessibilità dell’orario di servizio e limiti orari al carico di lavoro extra servizio (su cui pesa in maniera determinante l’elevato numero di studenti per classe), dotazioni informatiche personali (cioè si comprano e si riparano autonomamente il computer con cui lavorano). Ciò a fronte, oltre che dell’intenso lavoro, di rischi di carattere giuridico come, ma non solo, quelli legati alla responsabilità di sorveglianza degli studenti, rispetto a cui gli stipendi esigui non permettono di ricorrere a coperture assicurative per far fronte a eventuali spese legali, come accade invece per altre funzioni pubbliche di responsabilità.
2. In seguito al successo del 1988, tramite la legge 146 del 1990, il diritto di sciopero per il comparto istruzione è stato fortemente ridimensionato: oggi il primo sciopero per una vertenza è permesso per un solo giorno, mentre gli scioperi successivi sono limitati al massimo a due giornate consecutive, con intervalli di almeno dodici giorni e per un totale di massimo otto giornate l’anno; non è possibile differire le attività di scrutinio (e quindi di esame) se non per un massimo di cinque giorni. Di fatto per i lavoratori della scuola il diritto (costituzionale) di sciopero non esiste più.
3. I criteri per la definizione della rappresentanza sindacale a livello nazionale sono legati alla presenza di candidati alle Rappresentanze sindacali unitarie (le Rsu) nelle singole scuole piuttosto che alla reale rappresentatività nel comparto; con il risultato di sfavorire il sindacalismo di base la cui azione aveva facilitato il successo della vertenza di fine anni Ottanta, relegandolo a una marginalità che nel tempo è diventata anche culturale.
Riguardo la disponibilità finanziaria per gli adeguamenti stipendiali, sarebbe bene valutare con quale efficacia una quota dei già inadeguati (rispetto alla media europea) fondi destinati al comparto scuola vengano oggi utilizzati per erogare corsi di aggiornamento per il personale docente e sviluppare progetti di vario tipo per studenti, entrambi spesso di livello più che discutibile, con il ricorso pressoché totale a una galassia di soggetti privati in interventi isolati, piuttosto che con un coinvolgimento strutturale e continuo delle università, il soggetto più autorevole e qualificato in campo di formazione.
Posto che la scuola dovrebbe essere nei fatti, oltre che nei proclami, interesse di qualsiasi parte politica, chi potrebbe oggi rappresentare idealmente gli interessi degli insegnanti? Il numero dei docenti di ruolo ammonta a circa 700 mila unità con una componente femminile intorno all’80%. Ciò per ragioni storiche alle quali sono legate anche le basse retribuzioni del comparto: per decenni quello dell’insegnamento è stata una delle poche funzioni pubbliche accessibili alle donne laureate la cui subalternità al capo famiglia era rimarcata anche da uno stipendio più basso. Lo status sociale era garantito da un titolo di studio, a differenza di oggi, non inflazionato e appunto da redditi e patrimoni familiari.
Visti i numeri, per i partiti che oggi si identificano a sinistra, e che alle categorie teoriche della tradizione socialista stanno sostituendo quelle cosiddette intersezionaliste (genere, etnia, disabilità ecc.), quale battaglia sarebbe più appropriata di quella sul salario degli insegnanti per attaccare concretamente la questione del gender pay gap? Riguardo invece il fronte politico del merito: come si pensa di convincere i giovani del senso di tale valore proponendo loro come guida soggetti appartenenti a una categoria caratterizzata da un grado di istruzione elevato e da una busta paga così esigua? In un’ottica di efficacia del sistema, non si può prescindere dal fatto che il lavoro dell’insegnante prevede aspetti di relazione personale basati sull’autorevolezza, sulla fiducia e sul rispetto; se il docente viene percepito come un laureato di serie B, incapace di mettere a frutto i propri studi con una carriera più remunerativa, l’efficacia dell’azione didattica risulta irrimediabilmente compromessa. Uno stipendio adeguato non si configura dunque solo come una rivendicazione di categoria, ma è condizione necessaria e requisito indispensabile di una scuola di qualità; non viceversa.
Per decenni quello dell’insegnamento è stata una delle poche funzioni pubbliche accessibili alle donne laureate la cui subalternità al capo famiglia era rimarcata anche da uno stipendio più basso
Alcune, tra le tante possibili, proposte, oltre alla dirimente questione salariale, per provare a contrastare la svalutazione della figura dell’insegnante, potrebbero essere le seguenti:
1. ridimensionare il dovere di vigilanza nei confronti dei minori non in obbligo scolastico (dopo i sedici anni quindi, ma ancora meglio se per l’intero ciclo secondario di secondo grado), per ribadire che il ruolo del docente è molto diverso da quello di un sorvegliante;
2. limitare il carico delle attività accessorie e gli incentivi nei confronti di queste per riportare al centro l’attività didattica quotidiana. Se ad esempio il progetto sul cyberbullismo è pagato e apprezzato dalla dirigenza al contrario della preparazione e la correzione di un compito in classe che si pensa necessario, è facile immaginare dove si intende dirigere il lavoro degli insegnanti. Se si pensa di portare a scuola l’intelligenza artificiale (come è ovviamente bene che sia) si dovrebbe farlo non tramite progetti ma insegnandone i principi all’interno dell’attività curricolare;
3. sarebbe piuttosto opportuno valutare una differenziazione delle attività dei docenti sostituendo alcune ore di didattica con quelle dedicate alle altre attività, secondo le inclinazioni personali e le esperienze accumulate. In questo senso l’organico di potenziamento introdotto nel 2015, e presto ridimensionato, apriva possibilità interessanti;
4. sostituire le dirigenze di istituto con delle squadre di governo di insegnanti scelti dai collegi docenti al loro interno con mandato a scadenza; come accade nelle università e come accade ad esempio nelle scuole spagnole e portoghesi. I dirigenti oggi in servizio potrebbero fungere da riferimento per gruppi di scuole, ad esempio riguardo le questioni legali ed organizzative e come raccordo tra le scuole e gli uffici ministeriali a livello locale e centrale;
4. ampliare la possibilità di scelta delle materie nell’ultimo triennio da parte degli studenti così da favorire in questi un atteggiamento più sereno e interessato nei confronti delle discipline studiate e di rafforzare i contenuti disciplinari, rispetto a quelli genericamente (e spesso equivocamente) educativi;
5. valorizzare (in termini di salario, mansioni e autonomia) le carriere pregresse degli insegnanti con particolare riferimento al dottorato di ricerca e ad altre attività di ricerca disciplinare, ma in generale alle professioni specialistiche; così da contribuire ad attrarre personale motivato ed aggiornato;
6. prevedere esoneri parziali per gli insegnanti impegnati in attività didattiche nelle università, favorendo così la comunicazione e la collaborazione tra i due settori.
In un mondo in cui chiunque ha libero accesso a un’infinità di materiale didattico di grande qualità ed efficacia e a comunità virtuali di studio e lavoro, il cuore delle attività scolastiche e il loro senso resta quello della mediazione umana tra le discipline e gli studenti, rappresentata dal lavoro quotidiano degli insegnanti. L’investimento più efficace in materia di istruzione non può dunque che riguardare la qualità del personale docente; qualità che difficilmente si otterrà se non riconoscendola adeguatamente in termini di salario e condizioni di lavoro.
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