Nel giro di un mese i tassi di interesse sui titoli di Stato decennali italiani (Btp) sono passati dal 4,82 al 5,83%. Lo spread su quelli tedeschi (Bund), considerati i più sicuri, si è allargato da 1,87 a 3,14 punti. Un anno fa il tasso era al 4,06% e lo spread all’1,38. Anche per la Spagna, che paga interessi più alti dei nostri, lo spread si è allargato, ma in misura minore. La stessa Francia, sempre molto vicina ai tassi tedeschi, ha avuto un piccolo allargamento di spread. Noti sono infine degli spread dei tassi greci (14,93), irlandesi (11,57), portoghesi (10,22). Insomma tutti i tassi sui titoli di stato dei Paesi di Eurolandia sono al rialzo su quelli tedeschi che rappresentano il benchmark: ciò significa che il “mercato” percepisce un rischio crescente. Varie interpretazioni sono state date di questa situazione, che a nostro giudizio dipende da una serie di cause che la rendono molto pericolosa, non solo per l’Italia ma anche per l’euro e per Eurolandia.
Una prima causa è la speculazione internazionale che opera tuttora indisturbata. Dal 2008, i vari G8 e G20 nonché diversi organismi sovranazionali vecchi e nuovi operano per limitare gli eccessi speculativi, ma i risultati sono molto modesti anche per l’opposizione a forme efficaci di regolamentazione dei grandi operatori, specie anglosassoni. In questo scenario si intersecano fattori finanziari e monetari con un dollaro in prospettiva sempre più debole rispetto all’euro, se si guarda ai fondamentali economici di Usa e Uem, ma più forte se si guarda ai fondamentali politici. Non secondario è anche il problema della concorrenza tra emittenti titoli di Stato.
Una seconda causa sono le agenzie di rating. In tre (Moodys’, Standard&Poors, Ficht) coprono il 95% del mercato mondiale delle certificazioni di affidabilità dei titoli obbligazionari e azionari. Si tratta di una situazione di quasi monopolio sulla quale si sono riversate in crescendo critiche di autorevoli personalità delle istituzioni europee (tra cui quelle tedesche) e della Bce, dopo che le stesse hanno classificato come “spazzatura” i titoli di Grecia, Irlanda e Portogallo. Dal quando queste società hanno messo sotto osservazione l’Italia per un possibile peggioramento nel nostro rating sono iniziate le nostre fibrillazioni, poi via via peggiorate senza neppure risentire di un successivo pacato giudizio sull’Italia da parte di un alto esponente di Moodys’.
Una terza causa sono le turbolenze del governo italiano, che vede un ministro dell’Economia sempre più sgradito al presidente del consiglio e ad ampie parti del governo e della maggioranza. La politica del rigore trova crescenti difficoltà anche in conseguenza a tornate elettorali non favorevoli a questa maggioranza di governo, che avrebbe preferito riguadagnare terreno con la solita politica di “generose elargizioni”.
Una causa ulteriore è rappresentata dal grande debito italiano e dalle sue necessità di essere rifinanziato, così come da altre debolezza dell’economia italiana che vengono riassunte nei dati di bassa crescita e produttività. Sono note da anni e non sono peggiorate nella media di Eurolandia. Anzi, quanto a deficit su Pil l’Italia va meglio della media Uem. Una quinta causa è la lentezza decisionale della Uem e della Ue che tuttavia nel corso della crisi internazionale ha preso alcune decisioni più importanti di quanto abbiano fatto il G8 e il G20 e organismi a loro collegati.
Questa (parziale) sintesi è sufficiente a spiegare quanto Italia e Uem hanno fatto e quanto resta da fare per contrastare un attacco speculativo-strategico contro la stessa Uem e l’euro.
Il governo italiano ha approvato in aprile il documento di economia e finanza contenente sia il programma di stabilità sia il programma nazionale di riforme che agli inizi di giugno ha avuto il parere positivo delle istituzioni europee per gli anni 2011 e 2012, richiesti su 2013 e 2014, suggerimenti vari. Dopodiché è stato varato il Decreto legge 98, entrato in vigore il 6 luglio con “disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” e il Disegno di legge delega per la riforma fiscale e assistenziale. Il 30 giugno quando il Consiglio dei ministri ha varato il citato decreto lo spread del Btp sui bund era a 1,87; il 6 luglio, quando è entrato in vigore il decreto, a 2,20; il 15 luglio, quando il Parlamento ha convertito in legge il decreto, è passato a 3,12. Questa crescita dello spread non si può spiegare che con un attacco speculativo all’Italia e strategico all’euro. Perché malgrado la prevalente ostilità nel governo nei confronti di Giulio Tremonti, grazie all’impegno e al prestigio del presidente della Repubblica (nel silenzio invece del presidente del Consiglio), è stato raggiunto un accordo con l’opposizione che ha portato a tempi di record all’approvazione in Parlamento di una manovra quadriennale da circa 80 miliardi di euro (che ricomprendono le correzioni già approvate nel 2010 e riferite al 2011 e al 2012) che porterà al pareggio di bilancio nel 2014. Di fronte a tutto ciò gli spread avrebbero dovuto ridursi. Ciò invece non è accaduto, le aste dei nostri titoli di Stato sono state ampiamente assorbite ma a tassi crescenti, sui quali influisce di certo anche la scarsa credibilità del governo in carica.
In Eurolandia sono proseguite le politiche per aiutare la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo a uscire dalla crisi. Il fondo salva Stati (Efsf), già attivo dall’agosto 2010, ora può emettere obbligazioni fino a 440 miliardi. Nel 2013 diventerà permanente come Esm e sarà disciplinato da un Trattato, già pronto, tra i Paesi membri di Eurolandia. L’Ue ha anche varato il patto di stabilità e crescita rafforzato (“Europlus”) e ha attuato le procedure di controllo sui bilanci pubblici del “semestre europeo”. Infine, la Bce si è responsabilmente portata nell’acquistare titoli di Stato dei Paesi membri dell’Uem sotto attacco. Nessuno nega che l’Uem sia spesso lenta a reagire, com’è accaduto nel caso della Grecia e del coinvolgimento o meno dei privati nella ristrutturazione del suo debito. Ed è vero che la Germania, il Paese guida, talvolta oscilla. Ma alla fine l’Uem decide mantenendo una certa razionalità economico-finanziaria. cosa che invece non fanno gli Stati Uniti, rispetto ai quali, inoltre, l’Uem ha dei fondamentali ben superiori, in termini di debito e deficit pubblico su Pil e di bilancia commerciale. Ed è per questo che, malgrado i travagli di vari Paesi, l’euro resiste sopra 1,40 rispetto al dollaro.
Ma tutto ciò può non bastare. Perché se i “mercati”, magari guidati da qualche operatore strategico-speculativo attaccassero a fondo l’euro usando come grimaldello il debito pubblico italiano, allora le attuali difese della Uem potrebbero non essere sufficienti. Ecco la ragione da cui dipende l’urgenza del varo degli eurobond, un tema su cui dovrà interrogarsi il vertice europeo di giovedì prossimo (cfr. A proposito di bond europei).
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