Smentendo tutti i sondaggi, dalle elezioni spagnole è venuta una grande sorpresa. Il Partito popolare (Pp) è stato il partito più votato, ma non si può certo dire che abbia vinto. Puntava a conquistare la maggioranza assoluta e, in subordine, a raggiungerla in coalizione con Vox. Il partito, guidato da Alberto Núñez Feijóo, ha ottenuto 136 seggi (guadagnandone 47), Vox 33 (perdendone 19). Ha sì recuperato i voti di Ciudadanos, sparito dalla mappa politica, e ne ha rosicchiati altri a Vox, ma è andato poco oltre - in voti e percentuale - a quanto i tre partiti avevano ottenuto nel novembre 2019. Non c’è stato, dunque, nessun significativo spostamento a destra e l’estrema destra di Vox è l’unico partito uscito inequivocabilmente sconfitto. “España frena la onda Meloni” titola oggi “La Vanguardia”.Un’ottima notizia per l’Europa, anche in vista delle prossime elezioni in Polonia e in Olanda. Vero è che il partito di Feijóo ha conquistato la maggioranza assoluta in Senato, ma lo scarso ruolo della Camera alta nell’ordinamento spagnolo ne sterilizza il significato politico.
“España frena la onda Meloni” titola oggi “La Vanguardia”.Un’ottima notizia per l’Europa, anche in vista delle prossime elezioni in Polonia e in Olanda
Il Partito socialista (Psoe), ha ribaltato il voto che l’aveva visto perdente nelle autonomistiche e amministrative del 28 maggio scorso (mi sia consentito di rimandare a questa analisi) ed è rimasto sotto il Pp di solo poco più di un punto percentuale; ha ottenuto 2 deputati in più rispetto al 2019 e la nuova coalizione di Sumar, guidata da Yolanda Díaz, ne ha conquistati 31. Rispetto alle elezioni del 2019, circa 330 mila elettori in più hanno premiato il governo di coalizione progressista uscente. Tuttavia, anche le sinistre non hanno i numeri per governare, neppure qualora riuscissero a trovare l’appoggio dei partiti nazionalisti, sia moderati che radicali, catalani e baschi. L’ago della bilancia potrebbe essere Junts per Catalunya, il partito indipendentista di Carles Puigdemont, la cui astensione, tutt’altro che probabile, consentirebbe la conferma di Pedro Sánchez. Siccome di grande coalizione in Spagna non si parla perché è fuori dalle mappe mentali di tutti i partiti spagnoli, la situazione è bloccata.
Siccome di grande coalizione in Spagna non si parla perché è fuori dalle mappe mentali di tutti i partiti spagnoli, la situazione è bloccata
Che cosa potrà accadere nei prossimi giorni è abbastanza prevedibile, come si risolverà la crisi solo probabile. Il 17 agosto si costituiranno formalmente le nuove Cortes e prenderà così avvio la XV legislatura. Il re, consultati i partiti, affiderà con tutta probabilità l’incarico di presentarsi per l’investitura a Feijóo. Il quale, appena conosciuto il risultato delle elezioni, ha rivendicato la vittoria e la presidenza del governo, in base al principio che spetti al leader del partito più votato. Battendo questo tasto chiederà al Psoe e ad alcuni partiti minori, come il Pnv, Coalición Canaria e Unión del pueblo navarro, o di votarlo o di astenersi, per consentire il suo insediamento alla Moncloa.
Solo il Psoe, però, ha i voti necessari per rendere possibile l’operazione con la propria astensione e il partito di Sánchez risponderà negativamente. Lo farà ricordando che il Pp avrebbe voluto governare con l’estrema destra di Vox, come fa già in tre Comunità autonome e in decine di importanti città, e che per governare non è sufficiente essere il partito più votato, ma quello più capace di ottenere voti nel Congresso dei deputati, nel quale i socialisti hanno possibilità che non hanno i popolari, avendo già governato la precedente legislatura in coalizione con Unidas Podemos e l’appoggio dei partiti nazionalisti di orientamento progressista. Nell’estate già rovente di suo, la temperatura si scalderà ulteriormente, in continuità con quella che ha contraddistinto tutta la campagna elettorale segnata da falsità, insulti e fantasmi (quello dell’Eta su tutti). A questo punto è tutt’altro che da escludere che, per uscire dall’impasse, sia necessario ricorrere a una nuova consultazione popolare. È quanto successe nel 2019, quando gli spagnoli furono chiamati a votare due volte, la prima in aprile, la seconda in novembre.
A questo punto è tutt’altro che da escludere che, per uscire dall’impasse, sia necessario ricorrere a una nuova consultazione popolare
Detto degli scenari prossimi futuri più plausibili, restano da svolgere alcune considerazioni sul risultato del 23 luglio. Si è votato per la prima volta in piena estate. L’argomento è stato brandito come una clava contro il governo Sánchez e Díaz dalle opposizioni, che si sono spinte fino a mettere in discussione la neutralità e capacità delle Poste spagnole di far fronte alle tante richieste di voto per corripondenza. Con uno sforzo logistico non indifferente, non solo le Poste hanno gestito i 2,6 milioni di elettori che hanno chiesto di votare in questo modo, dei quali il 94% ha poi effettivamente votato, non solo hanno raggiunto gli elettori anche nelle località di villeggiatura, ma l’affluenza alle urne è cresciuta rispetto a quella del 2019 di oltre 4 punti. I risultati, pertanto, hanno dato ragione alla scelta di Sánchez di non aspettare la scadenza naturale della legislatura e di convocare anticipatamente gli spagnoli alle urne. Una mossa arrischiata, rivelatasi vincente e pertanto destinata a consolidare la sua leadership nel partito socialista.
Di contro, è difficile dire quello che avverrà in casa dei popolari, dove la presidente della Comunità di Madrid, Isabel Ayuso, scalpita da tempo per impadronirsi del partito e potrebbe trovare nel mancato raggiungimento della maggioranza assoluta un pretesto per provarci e andare alla carica. Un’altra considerazione riguarda il riscontro elettorale avuto dal governo uscente, che a suo merito poteva vantare l’uscita brillante dalla crisi pandemica, la crescita del Pil, il calo della disoccupazione, l’inflazione sotto controllo. Dati macroeconomici che mettono la Spagna ai primi posti nell’Unione europea, ma che hanno avuto solo una parziale ricaduta sulla vita degli spagnoli, i quali pur premiando il governo uscente, lo hanno fatto meno di quanto era lecito pensare. Molto significativo è stato poi il voto in Catalogna, dove il Psoe ha stravinto, Sumar ha tenuto rispetto al risultato di En Comú Podem del 2019, il Pp ha guadagnato due seggi, mentre si è registrata una forte flessione di tutti i partiti indipendentisti (Erc, Junts per Catalunya e Cup). Certo, non la fuoriuscita dalla crisi catalana, ma una conferma che l’atteggiamento dialogante di Sánchez ha concorso quantomeno a svelenire il conflitto.
L’ultima considerazione riguarda il sistema politico spagnolo. Un sistema contraddistinto dal bipartitismo imperfetto (per il ruolo a volte decisivo dei partiti nazionalisti catalani e baschi) fino al 2015, quando la somma percentuale dei due principali partiti superò di solo qualche decimale il 50%, rispetto all’82,5% delle elezioni del 2008 e al 73,2% del 2011. Per quanto le elezioni di ieri abbiano visto, a fronte del 48% delle elezioni del novembre 2019, una risalita dei due partiti, la cui somma percentuale giunge a superare il 64% dei consensi, e per quanto si sia registrata una flessione di quasi tutti i partiti nazionalisti, si può dare per consolidata la tendenza che vede definitivamente superato il bipartitismo. Un quadro diverso potrebbe propiziare una nuova legge elettorale, che vede ora assegnare in modo effettivamente proporzionale solo un seggio su tre. Ma c’è da dubitare che i due principali partiti, beneficiari di quella vigente, vogliano procedere in tale direzione.
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