La discussione sul fisco, in Italia, è un vuoto e stantio ripetersi di slogan e cliché, spesso condito da dati falsi o male interpretati. Per quanto di fisco si parli moltissimo, di fisco si discute molto poco. Questo accade perché l’opinione pubblica e la politica sono affette da quella che si può definire una sorta di sindrome bipolare.

Da un lato, domina una depressione paralizzante e una tendenza a rinunciare a fare discussioni serie su riforme strutturali del sistema e dell’amministrazione fiscale. Per quanto una o più proposte di riforma, tra loro anche molto diverse, possano ben essere giustificate da obiettivi di efficienza e/o di equità, l’unica cosa che sembra interessare è il confronto tra chi ci perde e chi ci guadagna. Curiosamente, questo fenomeno tende a ripetersi a prescindere dalla numerosità relativa dei “perdenti” e dei “vincenti” nella convinzione che il rumore mediatico proveniente dai primi sarebbe comunque superiore alla soddisfazione dei secondi. Del resto, questo è il risultato di decenni di involuzione del pensiero politico sul fisco, in particolare nello schieramento di matrice culturale progressista o riformista.

Le tasse bellissime o bruttissime, e le riforme paralizzate. Nel 2007, durante una trasmissione televisiva, l’allora ministro italiano dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa, affermò testualmente che “la polemica anti-tasse è irresponsabile”, aggiungendo: “bisognerebbe avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima e civilissima”. Sebbene non mancarono reazioni di supporto, la frase fu accolta, per lo più, da aspre critiche. Oggi, a oltre 15 anni di distanza, quella contrapposizione culturale e sociale sulla legittimità stessa della tassazione è ancora presente, e non solo in Italia. Da allora è probabilmente cresciuto il consenso rispetto all’idea opposta a quella espressa da Padoa Schioppa, secondo cui l’imposizione fiscale è un male e le tasse andrebbero sempre e comunque diminuite o quantomeno non aumentate. Anche nel centrosinistra alberga l’idea (curiosamente chiamata riformista quando di riformista non ha proprio nulla) che di imposte si deve parlare solo per annunciarne la riduzione, senza dimenticare che nel centrosinistra milita un partito che fino a non molto tempo fa organizzava le proteste contro Equitalia. D’altra parte, la destra è passata da leader che definivano un furto le aliquote superiori al 33% alla definizione delle tasse tout court come “pizzo di Stato”.

È facile capire come, in questo contesto, nessuna seria riforma fiscale sia possibile, sebbene essa sarebbe più che necessaria. Il nostro sistema fiscale è lontano dal soddisfare i principi di efficienza e di equità che sono spiegati in qualsiasi manuale di scienza delle finanze. La base imponibile dell’Irpef si è ridotta praticamente al solo lavoro dipendente e da pensione, per di più colpito da aliquote marginali e medie effettive che hanno un andamento e un livello lontano da quello ottimale. La strutturazione delle aliquote dell’Iva è del tutto irragionevole, l’Irap è stata svuotata completamente di senso rispetto agli intendimenti originari, l’Ires è piena di buchi. Su tutto trionfa un’evasione fiscale che, sebbene in calo negli ultimi 5 anni, è comunque stimata intorno agli 85 miliardi di euro annui, di cui 30 derivanti dai redditi non dichiarati dai lavoratori autonomi e dagli imprenditori individuali, ed è dalle 2 alle 3 volte superiore rispetto a quella dei Paesi a noi comparabili in termini di Pil.

Il nostro sistema fiscale è lontano dal soddisfare i principi di efficienza e di equità che sono spiegati in qualsiasi manuale di scienza delle finanze

Servirebbe, dunque, una riforma radicale di tutto il sistema fiscale, concepita partendo da un’analisi approfondita della situazione e da obiettivi chiari. Come ogni economista sa, è sostanzialmente impossibile soddisfare contemporaneamente obiettivi di efficienza, equità verticale ed equità orizzontale. Ogni modello di riforma esprime una preferenza relativa, o una gerarchia, tra questi obiettivi. Ed è esattamente questa gerarchia che dovrebbe essere indicata dalla politica che, invece, anche quando riesce faticosamente ad adempiere al compito, poi frettolosamente rinuncia a fare alcunché non appena si rende conto che questo può comportare dei costi politici (l’esempio della riforma Draghi, prima approvata all’unanimità in Consiglio dei ministri e poi bocciata in Parlamento è esemplificativo al riguardo).

La mania delle agevolazioni e la sua ideologia. Dall’altro lato, tuttavia, la politica è travolta dalla mania agevolatrice, un impulso apparentemente irrefrenabile e ampiamente bipartisan che vede nel fisco lo strumento principale per raggiungere obiettivi di Welfare o di politica industriale. Non c’è domanda di supporto, fondata o meno, che non trovi prima o poi un rappresentante parlamentare che chieda di istituire un regime agevolato, o almeno un incentivo o l’ennesimo credito d’imposta Irpef o Ires.

Di come si passi da un’ipotesi di riforma, per quanto discutibile, alla sua paralisi e quindi alla mania agevolatrice è esemplificativa anche la vicenda della legge delega di riforma del fisco fatta approvare dal governo Meloni. In questa legge, la prospettiva della flat tax per tutti rimane (per fortuna, si potrebbe dire, visti i termini in cui viene declinata) un vago obiettivo di lungo periodo, principalmente perché non sostenibile dal punto di vista della finanza pubblica.

E allora nella legge delega sono previste una miriade di misure ad personam, ciascuna con precisi destinatari. Per i pochi autonomi che ancora pagano l’Irpef e non sono entrati nei regimi sostitutivi, ecco in prospettiva l’aumento dell’area di esenzione fiscale. Per i dipendenti che hanno un rapporto di lavoro stabile, si ventila la detassazione delle tredicesime. Per i proprietari immobiliari, arriverà l’estensione della cedolare secca anche all’affitto dei negozi. Per chi ottiene dividendi azionari o interessi sulle obbligazioni, la delega apre la strada alla possibilità di creare, con l’aiuto dell’industria finanziaria, minusvalenze con cui rinviare all’infinito il pagamento delle imposte, e così via. Una serie di interventi spot che renderanno l’Irpef sempre più un’imposta à la carte, dove il reddito tassabile cambia a seconda della specifica situazione del contribuente. È curioso che alcuni di questi regimi siano giustificati dal governo richiamandosi al principio di equità orizzontale, ignorando le ben più macroscopiche violazioni di questo principio che sono create dall’esistenza stessa dei regimi agevolati, riservati ad alcuni contribuenti e inaccessibili ad altri. La stessa logica viene applicata all’Ires, l’imposta sui profitti delle società, con l’ennesima riproposizione di agevolazioni fiscali per gli investimenti, di dubbia efficacia e di complessa applicazione, e nessun tentativo di allargare la base imponibile, unica condizione credibile per ridurre le aliquote in modo generalizzato e trasparente.

Sembra evidente che ci avviamo verso un’ennesima legislatura in cui il nostro sistema fiscale verrà caratterizzato da ulteriori incentivi, crediti e regimi agevolati, nella totale assenza di una prospettiva di riforma

Sembra quindi evidente che ci avviamo verso un’ennesima legislatura in cui il nostro sistema fiscale verrà caratterizzato da ulteriori incentivi, crediti e regimi agevolati, nella totale assenza di una prospettiva di riforma degna di questo nome. Di nuovo, ovviamente, quali e quanti dipenderà principalmente dagli andamenti macroeconomici e dall’applicazione della nuova versione del Patto di stabilità. Ma, al di là della persistenza di uno stringente vincolo di bilancio, cosa ci ha portato a questo punto, cioè a concepire il fisco semplicemente come una fonte di agevolazioni, incentivi e regimi agevolati?

La mania agevolatrice si fonda su un’idea neppure troppo nascosta, ovvero che sia meglio affidarsi a interventi fiscali di natura automatica, per quanto settoriali e selettivi, piuttosto che a interventi pubblici, perché le amministrazioni pubbliche sarebbero intrinsecamente incapaci, secondo questa visione, di gestire in modo efficiente e mirato i propri interventi. Si tratta di una posizione largamente ideologica, fondata su una visione vecchia del modo di operare delle amministrazioni pubbliche, che non tiene conto degli enormi passi avanti che, anche grazie alle nuove tecnologie, oggi sarebbero possibili se le amministrazioni stesse avessero gli strumenti e le risorse, umane e finanziarie, necessarie per coglierne pienamente le potenzialità.

Se, prima di affrontare le questioni tecniche connesse al disegno e all’attuazione di un’ipotetica riforma fiscale, non si riesce a determinare, tra scienza e politica, un insieme di principi condivisi sul ruolo e gli obiettivi del fisco, sul modo di declinarli, attuarli e misurarli, e sulla necessità di accettare da parte di tutti che il disegno di riforma sia poi guidato dai risultati degli esiti prevedibili dell’applicazione dei principi stessi, non possiamo sperare di uscire dai nefasti effetti della sindrome bipolare.