Il grande pubblico che segue ciclicamente sui quotidiani la saga dell’esame di Stato, emozionandosi particolarmente per il liceo classico, quest’anno sarà rimasto spiazzato dal testo offerto agli studenti come traccia. Benché infatti l’autore fosse ben noto, il testo non conteneva un elogio della virtù, o dell’amicizia, o della filosofia, né un inno a tutti i più eccelsi beni spirituali che l’humanitas racchiude e dischiude solo a chi fa il classico, ma piuttosto il contrario: lo squallore, la feccia, ventitré soldati (23!) che acclamano un usurpatore impaurito dalla stessa circostanza di esserlo, con il comandante dell’accampamento che non reagisce, vile, vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, in una situazione di cui mi sarebbe piaciuto conversare con Manzoni in persona – e avremmo passato ore molto divertenti.
Da troppo tempo la storiografia era la grande assente della seconda prova del classico, e con lei la storia antica ha rischiato di scivolare ai margini della preparazione degli alunni del triennio. Il curricolo infatti prevede lo studio della storia antica e medievale nel biennio, come in tutta la secondaria di secondo grado, e sempre al biennio gli studenti si esercitano sulla traduzione con brani estratti dagli storiografi, come Erodoto e Senofonte per il greco, e poi Cesare, Sallustio, Livio, Valerio Massimo, Cornelio Nepote per il latino: un canone, questo, rimasto solido negli anni in virtù della sua efficacia. Il triennio dovrebbe essere dedicato alla traduzione dei testi poetici, retorici e filosofici in entrambe le lingue, naturalmente più complessi sul piano formale e concettuale, e poi a Tacito e Tucidide, storiografi involuti e spesso oscuri, che richiedono in effetti una sensibilità linguistica decisamente sviluppata, tanto da essere indecifrabili, anche dopo cinque anni di studio, per la gran parte degli studenti.
I giudizi degli esperti sulla nuova prova sono piovuti come la manna, a caldo, con una prevedibile dinamica fautori/detrattori, con indagini minuziose del testo tacitiano e del testo ministeriale, ma anche con illustri castronerie ben reperibili in Rete e nei social. Non aggiungerò la mia voce a questo petulante coro, se non per dire a coloro, tra gli accademici, a cui la prova è apparsa troppo facile che le prove dell’esame di Stato sono state modificate ad anno scolastico iniziato; le simulazioni sono arrivate in inverno, ma per la scuola si tratta di una manciata di settimane prima della prova finale, all’interno di un quinquennio impostato in altro modo. Anche le domande che accompagnavano il testo erano assai scolastiche; d’altra parte, in che cosa consiste fino ad oggi lo studio del greco e del latino al triennio, se non in una grandiosa infarinatura di storia letteraria in cui le formule fisse (la brevitas tacitiana, per l’appunto, o la tassonomia dei generi letterari) dilagano, nell’ossessione di completare il percorso cronologico?
Fatti, non parole. E cinismo. Questo è stato messo davanti agli studenti all’improvviso in questa prova. Dunque niente di retorico, niente di edificante, come in certi brani degli ultimi anni spacciati per testi filosofici. Nessuna astrattezza, ma la brutalità dell’uomo nel suo agire storico, quella dimensione con cui la cultura liceale italiana fa difficoltà a confrontarsi, la dimensione umile e paziente della ricerca del fatto, anche piccolissimo, delle prove a suo carico, prove materiali, fattuali, anche nei testi antichi, che per diventare fonti devono essere esaminati con un certo metodo. Il terzo quesito ammiccava alla questione chiedendo di distinguere storiografia e biografia, ma in pochissimi, nella tensione del momento, ci saranno potuti arrivare, mettendo a frutto forse non solo le ore di lezione di lingue classiche, ma anche quelle di storia.
Dunque questa prova può far presagire, insieme ad alcune tracce della prova di italiano, una maggiore attenzione alla ricerca storica e ai suoi metodi, facendo arretrare la retorica del bene e del giusto nell’antico che nella scuola è stata finora ospitata come un catechismo laico e ha prodotto un certo giornalismo e un certo tipo di fruitori, anche televisivi, per invadere poi i social e tutta la comunicazione pubblica. La letteratura con i suoi artifici avvolge le nostra percezione del reale (e della storia) quanto più siamo colti, paradossalmente, perché le discipline umanistiche nella scuola sono state finora succubi di grandi narrazioni, estese in manuali terrificanti nelle loro dimensioni, ancorate in modo persistente in un certo storicismo di maniera, e preferite alla lettura delle fonti e alla ricerca del “vero”. Mi piace pensare che a muovere le acque in questo senso non sia stata l’accademia (in molte occasioni pomposamente autocelebrativa ma inefficace, soprattutto nel campo degli studi classici e storici), ma la scuola; dove ora insegna una nuova generazione di docenti pronti a superare la lezione frontale pre-universitaria, ribelli alla facilitazione manualistica, autonomi nel giudizio sugli autori che conoscono direttamente e che cercano di far conoscere ai ragazzi con vero spirito di ricerca in lezioni seminariali e, lo ripeto, fuori dall’ossessione enciclopedica e cronistorica tradizionale.
Sarebbe bello se questo modo di fare scuola con i giovani, coinvolgendoli attivamente nelle letture e nelle discussioni, venisse riconosciuto come un modo valido di fare istruzione e di educare alla storia. Nella seconda prova del Classico potrebbe essere data una spinta per la costruzione di un rapporto veramente fecondo con le lingue e con i testi, se la rosa degli autori su cui esercitarsi in vista dell’esame finale venisse ristretta a un canone ragionevole, in modo da poter rendere più dense e profonde anche le richieste dei tre quesiti, magari lasciando anche liberi gli studenti di scrivere senza il limite delle righe imposto in questa modalità (quasi una cautela per i correttori, ma forse una frustrazione per gli alunni più dotati).
Per chi ama davvero l’antichità, dunque, non c’è da temere nulla in questa innovazione. Certe formule pseudocolte, certi giudizi diffusi (ormai triti) sul valore dell’antico stanno forse invecchiando. Sta ai docenti della scuola e al loro valore continuare la faticosa opera di trasmissione, di ‘tradizione’ nel senso etimologico, e di innesto nel tempo presente del patrimonio storico, nella sua purezza e nella sua intrinseca forza di insegnamento.
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