Sono stato molte volte in Cina, ma era da prima del Covid che non mi recavo in questo immenso e impressionante Paese. Questa era la mia terza visita a Wuhan, una megalopoli di oltre dieci milioni di abitanti dove ho contatti con la locale università. Ad ogni “giro” ho potuto constatare gli enormi progressi e i profondi cambiamenti che stanno avvenendo. Non che questi siano sempre migliorativi per noi. Ad esempio, lo sviluppo massiccio delle app e dei processi automatizzati disorienta il viaggiatore occidentale e rende il “fai da te” quasi impossibile. Per fortuna questa volta, ancor più che in passato, c’è chi si è preso cura di me dal primo all’ultimo momento, evitando il fardello di dovermi cimentare con i loro arnesi. Tra l’altro il Paese è sempre più chiuso in se stesso e per la prima volta non sono stato in grado di connettermi alla mia mail neppure tramite il Vpn. La Cina cresce, ma evidentemente il turismo non è una priorità.
Se avessi avuto dei dubbi sul fatto che qui le cose cambiano con una rapidità eccezionale, la visita al nuovo campus universitario a una quarantina di chilometri dal centro città li avrebbe frantumati. Una vera e propria città è sorta ai margini di Wuhan con fiammanti dipartimenti dalle ardite architetture, palestre, centri congressi, campi sportivi, giardini e fontane, strade interne e spazi per il tempo libero. Il tutto costruito in soli quattro anni, dalla progettazione alla realizzazione. Quasi come il ponte sullo Stretto. Il mio ospitante, un professore che mi aveva invitato a Wuhan anche negli anni passati e che regna incontrastato su un ossequioso gruppo di una cinquantina di persone, ci teneva a mostrarmi il suo nuovo istituto. Cinque piani di laboratori all’avanguardia dotati di tutte le più sofisticate strumentazioni che un chimico possa sognare. Anche se la maggior parte di questi strumenti sono fabbricati in Occidente, è in forte crescita la percentuale di strumentazione avanzata prodotta in Cina, a dimostrazione che ormai il Paese è sempre meno dipendente dalla tecnologia occidentale.
Molto istruttiva la visita alla gigantesca biblioteca. Innanzitutto, mi è parso bello che ci siano posti in cui ancora si investe sulle biblioteche. Un enorme cubo cavo all’interno dal cui tetto si gode della vista su tutto l’avveniristico complesso. Ma la cosa che più sorprendeva non erano gli aspetti architettonici o quelli paesaggistici, ma era il constatare che in ognuno degli otto piani c’erano distese di studenti. Tutti chini sui propri libri, tutti intenti a studiare, tutti immersi in un silenzio surreale. È uno degli indici di come la società cinese, super-meritocratica, concepisca ancora la conoscenza e lo studio come strumenti di crescita personale e come opportunità di miglioramento sociale.
Altrettanto memorabili le impressioni ricavate dal congresso a cui ero stato invitato assieme a qualche altro oratore occidentale, tutti ospiti d’onore a cui riservare un trattamento principesco, al limite dell’imbarazzante. I numeri dei ricercatori in Cina sono davvero impressionanti, e per dare modo a più oratori di presentare i risultati delle proprie ricerche i tempi assegnati alla maggioranza degli speaker era di 7 minuti per i contributi a invito e di 4 minuti per gli altri. Come dire che in un giorno sono riuscito a sorbirmi 65 interventi, un vero record. Ma con due considerazioni non banali. La prima. Nessuno, dico nessuno, degli oratori e delle oratrici ha sforato di nemmeno un secondo il tempo a disposizione (un enorme orologio scandiva implacabile i secondi mancanti alla fine dell’intervento per poi emettere uno stridente allarme sonoro che non c’è mai stato bisogno di attivare); non oso immaginare cosa succeda a chi non si attenga ai tempi. La Cina è un Paese di persone ligie alle regole. Seconda considerazione. Praticamente ognuno dei lavori presentati, sia pure nella brevità concessa dai tempi contingentati, era stato pubblicato o era in via di pubblicazione su importanti e blasonate riviste del settore. Come dire non solo quantità, ma anche qualità della ricerca esibita.
Rispetto ai loro colleghi americani ed europei, i ricercatori cinesi pubblicano più lavori nelle maggiori e prestigiose riviste scientifiche
La realtà è che ormai la Cina ha sopravanzato i Paesi occidentali in campo scientifico. I ricercatori cinesi pubblicano più lavori nelle riviste scientifiche più prestigiose dei loro colleghi americani o europei messi insieme. In campi come la fisica e la chimica più del 70% degli articoli più citati provengono da autori cinesi. Venti anni fa i lavori a elevato impatto prodotti negli Stati Uniti erano venti volte quelli cinesi, ma nel 2022 la Cina ha superato il concorrente americano su questo indicatore. Lo stesso vale per Europa e Giappone, per cui si può ben dire che l’ordine mondiale nel campo scientifico che è stato a lungo dominato dai Paesi occidentali sta per finire.
Secondo alcuni ranking internazionali, ci sono sei o sette università cinesi nelle prime dieci al mondo con le università di Shanghai e Pechino allo stesso livello dei classici Cambridge, Harvard o Eth di Zurigo. Di sicuro la scienza cinese è molto orientata all’applicazione dei risultati, una caratteristica che è propria di tutta la scienza asiatica, a differenza di quella europea che per tradizione storica è sempre stata attratta più dagli aspetti fondamentali e concettuali che da quelli applicativi. E dietro gli aspetti applicativi e industriali ci sono ovviamente quelli strategici e militari. La Cina ha recentemente inviato una sonda sulla faccia nascosta della Luna (la cosiddetta “dark side”) e Zhurong è un rover di fabbricazione cinese che si è posato con successo su Marte il 14 maggio 2021. Non è un segreto che la ricerca aerospaziale abbia le sue motivazioni primarie nell’industria militare. I settori scientifici su cui si concentrano gli sforzi maggiori sono nel campo della crittografia, delle tecnologie quantistiche, dei materiali avanzati, della genetica, delle neuroscienze, tutti temi di importanza strategica per un Paese che mira a dominare il mondo. Per non parlare dell’Intelligenza artificiale, dove la Cina produce circa il 40% di tutti i lavori, contro il 10% degli Stati Uniti e il 15% dell’Europa.
Tutto questo non è casuale, ma risponde a un ben preciso disegno. Ricordo quando negli anni Novanta l’indicazione era di incoraggiare i pochi ricercatori cinesi che cominciavano a emergere a cimentarsi su problemi scientifici di rilievo e a cercare di pubblicare i loro lavori su riviste internazionali. All’epoca la Cina era un Paese che esportava cervelli a tonnellate, soprattutto verso Stati Uniti ed Europa dove i giovani scienziati cinesi si sono sempre dimostrati motivati e determinati. Nei primi vent’anni di questo secolo più di sei milioni di studenti cinesi hanno lasciato il Paese per formarsi all’estero. Ma nello stesso periodo la spesa in ricerca e sviluppo in Cina è cresciuta di sedici volte in termini reali, le università si sono moltiplicate e hanno elevato la propria qualità, strumentazioni e tecnologie che vent’anni fa erano un miraggio oggi sono a disposizione di ogni laboratorio. I salari per chi torna in madrepatria sono divenuti principeschi, rendendo il rientro una opportunità eccezionale per molti giovani cinesi che hanno potuto portare a casa la preziosa esperienza fatta in Occidente e metterla al servizio di un sistema di ricerca generoso di riconoscimenti sociali oltre che economici e che vanta risorse praticamente illimitate.
La scienza cinese è molto orientata all’applicazione dei risultati, una caratteristica che è propria di tutta la scienza asiatica
Il risultato è che la Cina si è imbarcata anche in grandi imprese tecnologiche ai limiti della conoscenza, al punto che secondo l'“Economist” la Cina vanta il rilevatore di raggi cosmici ad altissima energia più sensibile del mondo, il generatore di campo magnetico stazionario più potente del mondo e presto disporrà di uno dei rilevatori di neutrini più sensibili al mondo.
Nel mio breve tour ho avuto modo di percepire in modo tangibile come la sensazione di essere su una traiettoria di crescita continua sia ben chiara tra chi si occupa di scienza in Cina. Al punto che se sino a poco fa tutti i ricercatori cinesi pubblicavano i loro risultati su riviste internazionali blasonate con sede in Europa e Stati Uniti, da qualche anno hanno cominciato a creare le loro riviste, per ora in inglese, ma su cui pubblicano quasi esclusivamente ricercatori cinesi. Non mi stupirei se tra qualche anno, consapevoli di essere ormai la potenza che guida lo sviluppo scientifico mondiale, i cinesi decidessero di pubblicare gli articoli scientifici nella loro lingua, obbligando noi occidentali ad arrangiarci a cercare di capire quali segreti e avanzamenti nascondono le loro pubblicazioni più interessanti. In fondo a inizio Novecento la scienza parlava tedesco, ed è in questa lingua che Einstein ha pubblicato i suoi lavori più rilevanti. Solo dopo il Secondo conflitto mondiale l’inglese è divenuto la lingua universale della scienza.
Certo, la scienza cinese non è senza problemi. Soprattutto etici. Il sistema cinese è molto competitivo e ha introdotto incentivi a volte perversi per emergere, tipo bonus finanziari o rapide progressioni di carriera per chi pubblica in riviste di alto prestigio, tipo quelle del gruppo “Nature”, di “Science”, ma in generale di tutte le riviste ad alto impatto. Questo ha prodotto una serie di comportamenti eticamente inaccettabili, inclusa la falsificazione dei dati, lavori inventati, la compravendita del nome degli autori su alcune pubblicazioni. La scienza ha dei robusti meccanismi di verifica interna tramite la revisione tra pari ma soprattutto tramite la verifica sperimentale e la riproducibilità dei processi e dei fenomeni oggetto di scoperta. Ma non è molto preparata ad affrontare chi vuole barare. E non c’è solo il problema dei dati alterati, ancora minoritario, c’è anche che a fronte di una piccola percentuale di scienziati eccellenti, la Cina ha generato numeri imponenti di scienziati medi e anche mediocri, col risultato di una produzione di articoli scientifici abnorme e spesso di scarsa qualità. Il tutto ha creato un elevato rumore di fondo da cui diventa difficile separare le cose valide da quelle inutili.
Per ora c’è di buono che gli scienziati cinesi sono ancora molto interessati a collaborare e condividere i propri risultati con i colleghi occidentali (almeno quelli non sensibili e riservati ovviamente: la Cina produce più brevetti di ogni altro Paese). Nonostante la crescita impressionante degli ultimi anni, il ricercatore occidentale affermato è ancora visto in Cina come un semidio a cui rivolgersi per consigli, aiuto a trovare una posizione, o anche semplicemente per un selfie. Una sensazione che confesso è tutt’altro che spiacevole soprattutto per chi è abituato da noi a un sistema dominato dalla fretta, dall’indifferenza e qualche volta dal desiderio di “rottamare” i vecchi professori. Tenere aperti canali di comunicazione e contatti con la Cina sarà sempre più fondamentale se vorremo evitare di finire completamente tagliati fuori dai processi di sviluppo scientifico e tecnologico che determineranno la nostra vita nei prossimi anni.
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