La diretta connessione dell’orario di lavoro con la salute dei lavoratori è sempre stata compiutamente valorizzata, perlomeno formalmente, dalla normativa della Comunità e poi dell’Unione europea, fin da quando impose al Regno Unito una direttiva sull’orario di lavoro, traendo legittimazione da una norma del trattato in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.
Dopo aver regolato l’orario di lavoro con la direttiva 93/104, l’Unione è ritornata sull’argomento con la direttiva 2003/88, relativa a «taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro», che porta nel primo articolo il preciso riferimento a «prescrizioni minime di sicurezza e di salute» dei lavoratori.
L’Italia non ha correttamente trasposto tale ultima direttiva, in particolare mantenendo esclusi dall’applicazione dei limiti di orario, giornaliero e settimanale, il «personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale», fino a provocare l’avvio di una procedura di infrazione, con la trasmissione da Bruxelles di una lettera di messa in mora, nell’aprile del 2012. La «legge europea 2013 bis» (l. n. 161/2014) ha finalmente provveduto ad abrogare le norme contestate – seppure con un ulteriore ritardo d’applicazione di un anno – riportando quindi il personale sanitario nell’alveo della normale limitazione degli orari di lavoro, concedendo solo alla contrattazione collettiva di potervi derogare, non diversamente da altri settori di attività espressamente previsti.
Giacché l’organizzazione degli ospedali pubblici è stata a lungo basata proprio su tale mancanza di limiti nell’impiego orario del personale medico e paramedico e, poiché il governo non ha accompagnato la misura di adeguamento europeo con la possibilità di nuove assunzioni, il risultato è una estrema difficoltà organizzativa, che dal 25 novembre scorso – data di entrata in vigore della misura in questione – affligge la già disastrata sanità del nostro Paese. Il provvedimento era necessario e dovuto, non v’è dubbio: non era infatti più possibile continuare con orari di lavoro che potevano infrangere il limite delle 11 ore di riposo continuativo nella giornata o quello massimo delle 48 ore settimanali, con potenziali pesanti ricadute sulla salute degli operatori e anche – se non soprattutto – sulla efficacia della loro attività e quindi sulla salute dei cittadini utenti del servizio.
Ma, come succede quando si opera senza disporre delle risorse necessarie, fingendo che una formula normativa basti alla bisogna – «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, della riorganizzazione e razionalizzazione delle strutture e dei servizi» – il risultato ha finito per peggiorare la situazione precedente. Sono infatti sempre gli stessi addetti che debbono provvedere, attraverso prestazioni di attività a volte irregolari o al limite della legalità. Secondo testimonianza accreditate non si sta procedendo infatti alla pretesa riorganizzazione e razionalizzazione ma ad una semplice rimodulazione degli orari, che sicuramente non contribuisce a un miglioramento del servizio e, in più realtà, si lamentano già allungamenti delle spesso smisurate liste di attesa. Costano in particolare al perseguimento dei più razionali obiettivi, tanto la mancanza di risorse quanto una sorta di incapacità delle strutture dirigenziali a farsi promotrici di reale innovazione.
Presso alcuni commentatori si punta l’indice contro la cosiddetta aziendalizzazione della sanità, considerata un fattore di irrazionale subordinazione all’economicità della gestione e non di efficienza sociale della stessa, anzi di potenziale moltiplicazione di criticità. Ci sono pochi dubbi che in questo caso un provvedimento di sicura utilità sociale, quale la regolarizzazione dell’impiego orario del personale, che si è dovuto attendere ci fosse imposto dall’Unione europea, stia producendo risultati eterogenei proprio in funzione della pretesa economicità della gestione. Senza pretendere una contrapposizione necessaria dei due termini – sociale ed economico – la vicenda europea dell’orario dei medici sta mettendo in luce una debolezza in un punto nodale del nostro sistema sanitario.
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