Da più parti si è salutato il referendum indetto da Tsipras per domenica prossima come una vittoria per la democrazia in Europa, o addirittura il risveglio di una sopita e mortificata sovranità nazionale, contro i poteri oligarchici e l'ideologia neoliberista che dominano da troppo tempo le sorti dell'Unione europea. Rimettere la palla ai cittadini, quando così tanto e così importante è in gioco, sarebbe semplicemente la cosa giusta da fare per chi crede nel principio della sovranità popolare. 

Luciano Canfora ricorda giustamente che il referendum è un istituto antichissimo e che per "democrazia", in origine e per lungo tempo, si è inteso democrazia diretta. E ha perfettamente ragione su questo. Il referendum è effettivamente un istituto fondamentale col quale all'interno dei regimi rappresentativi si ricorda e si rende operativo il principio in base al quale è il sovrano, cioè il popolo, a dover decidere direttamente sulle questioni fondamentali. Queste vanno dalle decisioni che toccano diritti e tutele importanti, come l'aborto o il divorzio, alle scelte di indirizzo politico destinate a segnare profondamente il futuro di una nazione e i suoi rapporti economici, come quelle che riguardano i beni pubblici o il nucleare, oppure - nel caso di referendum costituzionali - alle riforme degli stessi poteri e istituzioni del regime democratico. Questi temi non possono essere lasciati alle meccaniche e ai compromessi della politica ordinaria e alle decisioni estemporanee dell'esecutivo in carica, ma devono essere posti come questioni di principio, che richiedono un sì o un no lasciato alla decisione autonoma di ciascun cittadino nel segreto dell'urna.
 
Tuttavia questa descrizione dell'importanza dell'istituto referendario mal s'attaglia a quello che sta succedendo in Grecia in queste ore. Il referendum è stato indetto a sorpresa e organizzato in fretta e furia in un clima di preoccupazione e incertezza, che nel frattempo, dopo l'annuncio della chiusura temporanea delle banche, si è ulteriormente incupito. Il quesito referendario è contemporaneamente molto specifico e completamente vago. È molto specifico perché chiede semplicemente se debba essere accettata una particolare lista di richieste avanzata dai creditori il 25 giugno. Si tratta in altre parole di un singolo passo all'interno di un negoziato lungo e complesso che di certo, data la consistenza del debito greco, non si concluderà qui; tanto che i termini di quella proposta sono già stati superati dalla controproposta arrivata nei giorni successivi dallo stesso Tsipras. Allo stesso tempo, il quesito referendario è assolutamente vago (la Athens Bar Association – in maggioranza a favore del sì – ha dichiarato che proprio per via della sua vaghezza il quesito referendario sarebbe addirittura incostituzionale), perché non è affatto chiaro che cosa implichi o porti con sé accettare o rifiutare. Per alcuni, l'uscita dall'euro; per altri, addirittura l'uscita dall'Unione; per altri ancora la bancarotta, ma non quelle altre conseguenze; oppure diverse combinazioni di tutto questo, ma senza che nessuno abbia chiare ragioni per difendere le proprie previsioni. In realtà, fino all’ultima conferma di Tsipras non si sapeva neppure se il referendum ci sarebbe stato veramente.
 
Tutta questa incertezza non è casuale. Risulta invece dal fatto che il referendum greco non verte su questioni di principio, ma su questioni strategiche, e le conseguenze del sì o del no dipendono da come reagiranno gli altri attori di questa complessa e non completamente onesta partita. È stata avanzata l'ipotesi che Tsipras abbia deciso di usare il referendum per non assumersi la responsabilità politica di una capitolazione alle richieste contenute nella proposta del 25 giugno. Altri, dopo che il Primo ministro ha annunciato il ritiro nel caso di una vittoria del sì, hanno ritenuto che quella del referendum sia stata invece una mossa a sorpresa per rafforzare il potere negoziale della Grecia di fronte alla inaspettata rigidità delle controparti. In entrambi i casi, l'appello al popolo non è ispirato dal principio della sovranità popolare, ma da considerazioni tattiche, di politica interna nel primo caso e di politica estera nel secondo. In queste circostanze il popolo non esercita alcun ruolo da protagonista o alcuna sovranità effettiva, ma è solo chiamato a fungere da utile sponda in un gioco che per sua natura è negoziale e strategico.
 
Al di là di quello che sarà l'esito finale di questa vicenda, la retorica della sovranità popolare che ha animato il discorso con cui Tsipras ha annunciato il referendum e molti commenti che qui in Italia e all'estero hanno plaudito alla sua scelta rivela un'imbarazzante confusione su che cosa sia un regime democratico e sui modi in cui si esercita propriamente la sovranità popolare. In circostanze come quella in cui si trova la Grecia, il popolo esercita la propria sovranità affidando il potere esecutivo di negoziazione con le controparti internazionali a un governo regolarmente eletto, che deve agire con tempestività, efficienza e senso della responsabilità. Il popolo esercita inoltre la propria sovranità al momento della resa dei conti, quando gli elettori possono premiare o punire col voto le scelte dei politici che sono stati in carica. Non esercita la propria sovranità se evocato estemporaneamente come arma di ricatto a un tavolo negoziale, né se si trova rimessa di colpo nelle proprie mani una singola decisione nel mezzo di una complessa trattativa che è stata condotta fin qui da altri.