La questione della riforma istituzionale è uno dei tormentoni della vita politica italiana fin dagli anni Settanta: ritorna regolarmente sulla spinta dell’attualità per poi, in genere, sparire altrettanto rapidamente. Accadrà lo stesso in questo 2010? È prematuro rispondere, ma ciò che è certo è che il dibattito sul presidenzialismo è stato rilanciato in coincidenza delle elezioni regionali. E, come al solito, le istituzioni francesi sono state citate quale esempio da imitare o, al contrario, da evitare assolutamente.
Per una singolare sovrapposizione, è appena uscito un libro molto interessante e dal titolo suggestivo: Una splendida cinquantenne: la Quinta Repubblica francese. Frutto della collaborazione tra specialisti francesi e ricercatori italiani, il volume presenta un contrasto curioso. Mentre gli italiani hanno la tendenza a elogiare le istituzioni francesi – si veda Gianfranco Pasquino, curatore del volume con Sofia Ventura –, i ricercatori francesi, benché ne riconoscano i numerosi meriti, non esitano a esprimere interrogativi – leggi a condividere i propri dubbi. Perché si ostinano a cercare i primi segni di invecchiamento di questa Repubblica che ha raggiunto l’età della maturità?
Da una parte, per motivi che risalgono al 1958, e ancora maggiormente dopo la riforma del 1962 che instaurò l’elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica. Ad esempio, sono spesso criticati il carattere ibrido di un regime semi-presidenziale, le derive di una monarchia repubblicana o la debolezza di tutte le forme di organizzazione intermediarie della democrazia. Dall’altra, perché, in questi ultimi tempi, la Quinta Repubblica incontra, con ogni evidenza, qualche difficoltà ad affrontare le sfide di oggi. L’europeizzazione, le aspirazioni al localismo e alla globalizzazione erodono due delle sue colonne portanti: uno Stato forte e una nazione unita. Le mutazioni contemporanee della democrazia la scuotono. Il disinteresse per la politica fa sì che porzioni intere della popolazione, presso i giovani e nelle periferie, non solo non si riconoscano nell’offerta politica, ma siano distanti dalle istituzioni. D’altronde, l’aspirazione a dare vita a una democrazia partecipativa, più vivace, più esigente, non trova risposta, per il momento, da parte delle istituzioni. Ciò non significa che la Quinta Repubblica sia in agonia, ma senza dubbio ha bisogno di un aggiornamento.
In queste condizioni, la Quinta Repubblica costituisce un modello desiderabile e possibile per l’Italia di oggi? Il dibattito, benché leggermente viziato dal fattore B (ovviamente B come Berlusconi), merita di essere approfondito. Ma evitando di erigere la Quinta Repubblica a monumento mitico, idealizzato e perfetto. Bisogna sì analizzarne i vantaggi, ma non tralasciando di considerarne i malfunzionamenti e gli errori.
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