Come scrive Anna Momigliano, discutere di categorie analitiche mentre piovono le bombe su Gaza può essere interpretato come un vezzo, un accessorio, una questione non prioritaria. Di fronte all’urgenza degli eventi certamente lo è. Ma il linguaggio con il quale questa guerra viene descritta è tutt’altro che neutro e costituisce un aspetto della guerra stessa. La scelta delle parole con le quali viene comunicata non è casuale: determina un campo identitario, stimola il senso di appartenenza, giustifica l’ampiezza del contraccolpo. Interrogare l’uso politico dell’informazione, specialmente quando questa giustifica, legittima o provoca altra violenza, è quindi necessario e urgente .

Di fronte alle molteplici richieste di cessate il fuoco, il 30 ottobre Benjamin Netanyahu risponde: «Le richieste di cessate il fuoco chiedono a Israele di arrendersi di fronte a Hamas, al terrorismo, alla barbarie. Questo è il tempo della guerra. Una guerra per un futuro comune». Il primo ministro israeliano non si limita a puntare il dito contro il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre, ma giustifica l’intensificarsi dei bombardamenti su Gaza universalizzando la questione e riportandola a uno scontro ideologico tra civiltà e barbarie. Il riferimento all’11 settembre 2001 e agli Stati Uniti è evidente, tanto che è lo stesso Netanyahu a ricordarlo paragonando il suo discorso a quello con il quale George Bush annunciava l’invasione dell’Iraq nel 2003 in nome della difesa della democrazia.

Questo non significa che l’attacco di Hamas non sia un atto barbaro, ma che, vent’anni più tardi, la divisione tra un noi – inteso come l’Occidente democratico – e un loro – inteso come l’Oriente conservatore, l’Islam, un generico Altro con la A maiuscola, nemico di quei valori che contraddistinguerebbero il campo della civiltà – non solo ritorna d’attualità, ma rappresenta ancora un argomento in grado di legittimare agli occhi della comunità internazionale la punizione collettiva dei palestinesi di Gaza. Un discorso semplicista e pericoloso che, più che traghettarci verso «un futuro comune», contribuisce alla polarizzazione di un dibattito politico e mediatico che si è servito, senza esitare, degli stessi termini utilizzati dall’attuale classe politica israeliana, criticata e contestata da mesi da un’importante parte dell’opinione pubblica israeliana, come hanno denunciato tra l’altro proprio gli stessi ostaggi di Hamas.

Gli effetti di un discorso che ricalca senza troppi giri di parole la teoria dello scontro tra civilizzazioni di Samuel Huntington – spesso citata dalle estreme destre anti-migranti, eredi storiche di politiche razziste e antisemite – hanno già oltrepassato i confini israeliani e palestinesi. A provarlo sono i recenti atti antisemiti e islamofobi che hanno avuto luogo in Europa, ma non solo. Proprio come accadeva a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967, anche i Paesi della regione mediterranea considerati a maggioranza arabo-musulmana, dove il sostegno alla causa palestinese è maggioritario per evidenti ragioni storiche, subiscono gli effetti della retorica Occidente versus Oriente, che rafforza governi identitari e spacca società ben più composite di come le immaginiamo quando tiriamo una linea in mezzo al Mediterraneo e lo dividiamo in due, tra noi e loro.

Prendiamo l’esempio della regione del Maghreb. «Dopo aver resistito all’espansione cristiana, poi a quella dell’Islam, i maghrebini ebrei hanno marcato nel tempo le società nordafricane e contribuito a un’autentica civilizzazione giudeo-musulmana che condivide una lingua, una cultura e anche un substrato religioso», ricorda l’autore Julien Cohen-Lacassagne nel suo libro Berberi ebrei (Berbères juifs), edito in Francia dalle edizioni La Fabrique. In Tunisia, dove ancora oggi esiste una minoranza ebraica con i propri riti, le proprie tradizioni e i propri luoghi di culto, una sinagoga è stata attaccata a El-Hamma, nel Sud del Paese, a seguito del bombardamento dell’ospedale di Al-Alhi a Gaza. Questo episodio non va utilizzato a dimostrazione dell’equazione tra Paese a maggioranza arabo-musulmana e barbarie, ma è giusto che allarmi. Proprio perché ci racconta l’effetto domino provocato da politiche con mire divisive che finiscono, effettivamente, per dividere.

È in reazione alla spaccatura noi/loro che si discute oggi del cosiddetto processo di decolonizzazione del linguaggio

È in reazione alla spaccatura noi/loro che si discute oggi del cosiddetto processo di decolonizzazione del linguaggio, ossia della necessità di rimettere in discussione una lettura dell’attualità che continua a riprodurre gerarchie di potere pur professandosi neutra. Il dibattito sull’influenza che una serie di rimozioni storiche, in particolar modo quelle del colonialismo e dei suoi crimini, continuano ad avere sul discorso pubblico e, di conseguenza, sulle nostre scelte politiche non è nuovo e agita da anni gli atenei europei dove si sono fatti spazio i cosiddetti cultural studies, un ramo che indaga su come le pratiche culturali si relazionino a sistemi di potere più ampi. Il fatto che se ne discuta finalmente anche in Italia, dove la retorica degli Italiani brava gente raramente viene messa in discussione fuori e dentro i circoli decisionali della politica, è di per sé una buona notizia. Al di là della guerra attuale, potrebbe portare a riaprire il capitolo dell’eredità coloniale italo-fascista e dei nostri rimossi collettivi.

Eppure, raramente l’approccio decoloniale viene interpretato come un’opportunità per rimettere in discussione l’interpretazione dei fatti. Viene ridotto, nel migliore dei casi, a un dogma, altrimenti a una tendenza social, ignorando l’ampio bagaglio di studi che declinano questo concetto. L’editoriale di «The Atlantic» The Decolonization Narrative is Dangerous and False è molto circolato in queste ultime settimane a dimostrazione del fatto che, come scrive lo storico Simon Sebag Montefiore, l’argomento coloniale non può essere utilizzato per spiegare «né la fondazione di Israele né la tragedia dei palestinesi». Per l’autore, «chi giustifica l’uccisione di civili israeliani si serve di un’ideologia alla moda: la decolonizzazione. Che, letteralmente, esclude la negoziazione tra due Stati – l’unica soluzione a questo secolo di conflitti – ed è tanto pericolosa quanto falsa».

Secondo la visione di Montefiore, ampiamente condivisa anche in ambienti intellettuali di sinistra, chi chiede di contestualizzare l’attacco del 7 ottobre e gli eventi successivi o di non deumanizzare i palestinesi starebbe giustificando Hamas, rimettendo in discussione l’esistenza dello Stato di Israele, e quindi degli ebrei stessi. Queste scorciatoie intellettuali che stabiliscono un collegamento diretto e causale tra sostenitori di Hamas e chiunque provi a portare una lettura critica – o spesso anche solo approfondita – degli eventi attuali sono usate in maniera strumentale non appena si impone l’esigenza di allargare l’obiettivo e spiegare, per esempio, la storia di Gaza stessa, la presenza di 700 mila coloni in Cisgiordania, o, ancora, l’occupazione dei territori palestinesi a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967 nonostante una risoluzione Onu, la numero 242, che da allora chiede a Israele di ritirarsi.

A rivendicare il gergo coloniale è proprio l’attuale classe politica israeliana. Prima che si formasse il governo d’urgenza post 7 ottobre 2023, il contestato esecutivo guidato da Netanyahu era sostenuto da partiti di estrema destra e della destra ultraortodossa a favore di uno Stato su base etnico-religiosa nonostante la presenza della componente arabo-israeliana del Paese (17%). La spaccatura noi/loro è talmente riduttiva che non permette nemmeno di capire la società israeliana stessa. A decretare il carattere esclusivamente «ebraico» di Israele è ormai una legge approvata dalla Knesset, il Parlamento israeliano, il 19 luglio 2018. Il testo è entrato a far parte delle leggi fondamentali che fungono da Costituzione in Israele e considera «l’avanzamento degli insediamenti ebraici nell’interesse nazionale. Lo Stato adotterà misure per incoraggiare, far progredire e servire questo interesse», si legge. Proprio l’avanzare delle colonie ha fatto sì che si allontanasse la sempre più irrealizzabile soluzione a due Stati, come prevedevano gli ormai falliti accordi di Oslo.

Negare la questione palestinese, relegandola a una presa di posizione ideologica, non solo rappresenta una lacuna storica, ma è spesso intellettualmente disonesto

L’associazione tra Israele e colonizzazione è dunque tutt’altro che ingiustificata, e così pure la legittimità dell’argomento decoloniale. Negare la questione palestinese, relegandola a una presa di posizione ideologica, non solo rappresenta una lacuna storica, ma è spesso intellettualmente disonesto. La fiorente letteratura palestinese del periodo post Nakba (l’estromissione dei Palestinesi del 1948) da anni conserva memoria e identità di un luogo rimosso. Molte delle risposte possibili ce le fornisce Edward Said, uno degli intellettuali più studiati proprio nel quadro delle teorie postcoloniali o decoloniali. Said, palestinese, è l’autore della teoria nota (o che dovrebbe essere tale) a chi si occupa o si è occupato della vasta area che chiamiamo Medioriente: l’orientalismo.

Secondo Said, l’Oriente, inteso in alterità rispetto all’Occidente, non è semplicemente l’area geografica adiacente all’Europa:

È anche il luogo delle più vaste, ricche e antiche colonie europee, la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue, il suo concorrente culturale e una delle sue immagini più profonde e ricorrenti dell’Altro. L’Oriente ha contribuito a definire l’Europa (o l’Occidente) come immagine, idea, identità e esperienza contrastante. L’Oriente è parte integrante della civiltà materiale e della cultura europea. L’orientalismo esprime e rappresenta questa parte culturalmente e ideologicamente, come modalità di discorso con istituzioni, vocabolario, studi, immagini, dottrine, burocrazie coloniali.

Nella prefazione dell’edizione più recente di Orientalismo, uscito per la prima volta nel 1978, Said ritorna sui rapporti Oriente/Occidente. Ne scrive a seguito dell’11 settembre e durante l’inizio della guerra in Iraq nel 2003, poco prima della sua morte. Questa è la sua interpretazione del ruolo degli intellettuali che «per forza di cose, vivono effettivamente la vita pluriculturale che comporta l’Islam e l’Occidente»:

Ritengo che sia nostro dovere complicare o smantellare le formule riduttive e il tipo di pensiero astratto ma potente che conduce la mente lontano dalla storia concreta verso il regno della finzione ideologica […] e della passione collettiva. Questo non significa che non si possa parlare di ingiustizia e sofferenza, ma che è necessario farlo sempre in un contesto ampiamente situato nella storia, nella cultura e nella realtà socio-economica. La cosa fondamentale è che la lotta per l’equità in Palestina/Israele deve essere diretta verso un obiettivo umano che è la coesistenza e non l’ulteriore soppressione e negazione. Non a caso, indico che l’orientalismo e l’antisemitismo moderno hanno radici comuni.

In un territorio così intrecciato, dove Stato, nazione e colonialismo si intersecano, e che per di più fa da cassa di risonanza agli irrisolti storici europei del dopoguerra, il contesto non può quindi essere messo da parte. È fondamentale per una comprensione il più possibile imparziale degli eventi. Per questioni di spazio e tempo, però, le notizie filtrate attraverso il formato breve imposto dai social network finiscono spesso per tralasciarlo. Se le news sono oggi più accessibili, il modo in cui ci informiamo rafforza i contorni delle definizioni.

Scriveva Susan Sontag nel suo saggio Sulla fotografia (1977), pubblicato ben prima dell’avvento dei social network:

Intorno alle immagini è stato costruito un nuovo senso della nozione di informazione. Una sottile fetta di spazio e di tempo. In un mondo governato dall’immediatezza, tutto diventa separato, discontinuo, spezzato dal resto, rafforzando una visione nominalista della realtà sociale, divisa in piccole unità.

In questi giorni, l’impressione è proprio quella che il racconto della realtà scivoli via dalle mani troppo in fretta, lanciandosi dietro un profondo senso d’urgenza e d’impotenza allo stesso tempo. La risposta è solo una: provare a riavvolgere il nastro.