Tutti i processi degenerativi hanno un inizio e quello della perdita di qualità della formazione dello studente comincia con due scelte politiche consonanti dal punto di vista cronologico ma velleitarie dal punto di vista degli esiti: l’una affidata alla commissione dei saggi istituita dal ministro Berlinguer per definire le coordinate di “una nuova scuola” per i decenni a venire (1997), l’altra importando in Italia un modello ordinamentale anglosassone, il cosiddetto 3+2 (1999), del tutto estraneo alla nostra storia, con l’intento di dare una sforbiciata al tempo della formazione universitaria dello studente italiano. Scelte cariche dello spirito utopico di un’idea di scuola di massa che avrebbe conseguito risultati di qualità “destrutturandosi e riedificandosi” in coerenza con la fluidità del mondo del lavoro, e nell’illusione che l’accorciamento del percorso di studi universitario vi avrebbe immesso i giovani a 22 anni, come accadeva in tutto il mondo avanzato, invece che a 26, come accadeva allora in Italia. Scelte pensate “investendo” sulla partecipazione delle famiglie, come recitava il documento congedato dalla commissione dei saggi.
A distanza di cinque lustri il bilancio è ben diverso da quello che ci si aspettava. In quasi venticinque anni scuola e università sono diventate i luoghi simbolo dell’autoinganno collettivo col quale la classe politica ha reiterato la giustificazione di quelle scelte sbagliate. Ma oggi siamo al redde rationem.
I test Invalsi 2023 ci restituiscono l’immagine di un universo scolastico in cui i divari territoriali si sono ampliati e l’equità del sistema è al di sotto di ogni plausibile accettabilità. Basti dire che nel Mezzogiorno, al termine della quinta primaria, i bambini che non raggiungono almeno il livello base nelle prove di italiano sono il 30-35%, a fronte del 20% del Centro Nord e di una media nazionale al di sotto del 25%. Scarti maggiori si rilevano in matematica, con meno del 30% di fragilità in Veneto e oltre il 50% in Sicilia. E così accade che la critica al carattere “nuovo e democratico” della scuola immaginata venticinque anni fa dalla commissione Berlinguer non appaia più un’eresia. E che diventi più che urgente provare a far qualcosa per arrestare il declino di un sistema di istruzione che è andato di pari passo, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia ne L’aula vuota (Marsilio, 2019) col declino del Paese.
Negli anni ha finito per prevalere la messa al bando post-sessantottina del principio di autorità. Senza prevedere che mettere al bando questo principio equivale a mettere al bando il senso stesso dell’istituzione scolastica
Salvo eccezioni, nella scuola ha finito per prevalere negli anni una disarmata rassegnazione di fronte a riforme sempre più incomprensibili, sempre più cervellotiche, volte a confermare l’ovvia messa al bando post-sessantottina del principio di autorità. Senza prevedere che mettere al bando questo principio è equivalso a mettere al bando il senso stesso dell’istituzione scolastica. Recuperare quel senso oggi è difficile, ma bisogna tentare. E bisogna iniziare dalla scuola.
Il primo passo da avanzare è la liberazione di quest’ultima dalle fatue routine burocratiche addobbate di astruserie compiaciute e ignoranze sostanziali che hanno ingabbiato il corpo docente sottraendogli tempo per lo studio e l’insegnamento. Il cambio di passo è osteggiato. Ne sa qualcosa il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara che, percorrendo la strada della semplificazione, ha provato a sostituire un’incomprensibile scala di valutazione in uso nella scuola primaria con giudizi chiari e distinti. La reattività dei suoi oppositori ideologici ha fatto addirittura partire una petizione contro di lui ma, alla fine, analizzando bene i termini della questione in gioco, tutto è abbastanza prevedibile. Alla scuola si è chiesto sino a oggi il “mascheramento” della verità delle cose per reggere quell’autoinganno collettivo che è l’altra faccia dell’utopico buonismo inclusivo sul quale si è costruito il modello di scuola post-sessantottino. E il luogo elettivo di questo doloroso smascheramento è proprio la valutazione: chi accetta di essere valutato, accetta l’autorità di un valutatore. Ma oggi, come è noto, è sempre più difficile per le famiglie accettare il giudizio di un valutatore che, nella scuola, come è ovvio, coincide con la figura dell’insegnante.
La perdita di centralità della funzione docente nell’ambito sociale è drammatica. Ieri ci si toglieva il cappello dinnanzi a un insegnante, oggi lo si sbertuccia senza pietà
A quest’ultimo, invece, si chiede sempre più indulgenza. Si chiede di chiudere gli occhi e di nascondere gli esiti eventualmente negativi usando un linguaggio cifrato, ai limiti dell’esoterico, comprensibile solo agli addetti ai lavori. Perché oggi l’insegnante è sostanzialmente questo: l’anonima rotella di un ingranaggio neo-liberista, sempre più privato della sua liberà di giudizio a favore della libertà dei suoi stakeholder. Anche per questo oggi la perdita di centralità della funzione docente nell’ambito sociale è drammatica. Ieri ci si toglieva il cappello dinnanzi a un insegnante, oggi lo si sbertuccia senza pietà.
Siamo consapevoli che questo mutamento delle rappresentazioni sociali della docenza ha avuto come contraltare l’abbassamento della qualità della formazione dello studente? Mi chiedo perché sulla difesa del corpo docente “umiliato e offeso” della scuola non ci sia mai alcuna mobilitazione, mai alcun appello, mai alcun intervento di un personaggio televisivo. Forse perché la libertà di insegnamento è un tema sul quale è difficile inscenare quei discorsi demagogici che invece sono di prammatica quando si parla di scuola. Discorsi mossi dalla paura che ogni modifica colpisca l’indulgenza generalizzata che domina oggi il sistema di istruzione scolastico italiano. Un sistema che nascondendo costantemente la verità impedisce a ognuno di conoscere se stesso e quindi di migliorare, che scambia un giudizio d’insufficienza per una condanna all’esclusione, fingendo di ignorare che comunque a escludere ci penserà poi, fuori dalla scuola, qualcun altro.
E a escludere, dopo la scuola, comincia l’università, iscrivendo coorti di studenti privi dei requisiti di accesso necessari alla frequenza dei corsi.
Si tenta di colmare questi deficit culturali con i cosiddetti Ofa (Obblighi formativi aggiuntivi), che nel burocratese accademico identificano l’impegno aggiuntivo di matricole patentate all’accesso ma implicitamente ignoranti, spinte al difficilissimo recupero nella zona Cesarini dei primi mesi di frequenza dei corsi. Con modesti risultati, purtroppo, visto che i tassi di abbandono non scendono.
Secondo i dati Istat più recenti i laureati fra i 30 e i 34 anni sono il 27% contro la media Ue del 41,6%. Insomma, non riusciamo a laureare quanto vorremmo.
A escludere, dopo la scuola, comincia l’università, iscrivendo coorti di studenti privi dei requisiti di accesso necessari alla frequenza dei corsi
Ma, forse, dovremmo cominciare a guardare con più disincanto al mito della laurea per tutti, anch’esso figlio di quella stagione di riforme sbagliate. Pur riconoscendo il valore dell’higher education come volano di emancipazione collettiva, forse è arrivato il tempo di cominciare a ragionare sull’ipotesi che a university degree for everyone can’t be the goal senza essere tacciati di ideologia dell’esclusione.
Su questo si è espresso di recente anche Shitij Kapur, rettore del King’s College di Londra, illustrando uno studio sul sistema universitario britannico dal quale si evince il tragico dilemma fra l’indebitamento crescente della popolazione studentesca (come è noto oltre il 90% dei laureati inglesi contrae un prestito per potersi laureare con un debito medio di oltre 50.000 euro che li rende i laureati più indebitati al mondo) e le strategie governative che provano a ripianare i debiti con prospettive di insolvibilità se i numeri degli studenti che accedono all’università continueranno a crescere.
In Italia l’ultimo rapporto Anvur ci racconta chi è lo studente universitario del 2024: orientato a immatricolarsi negli atenei del Centro e del Nord. Rinuncia meno agli studi ma abbandona in percentuali elevate (circa il 12% degli studenti ha rinunciato agli studi tra il primo e il secondo anno nei corsi di laurea triennale nel periodo immediatamente antecedente la pandemia e circa il 20% ha lasciato dopo il terzo anno). Si laurea a 24,4 anni nei corsi di primo livello e a 27,2 anni nelle magistrali biennali (fonte: Alma Laurea).
Laurearsi oggi a 27,2 anni certifica il definitivo fallimento del sistema 3+2 e dimostra l’insensatezza di un biennio specialistico per quasi tutte la branche disciplinari e, purtroppo, anche dell’adozione di un sistema, quello dei crediti, che ha funzionato come una paideia al contrario, introducendo un criterio di utilità in un contesto che avrebbe dovuto nutrire perennemente l’idea che la cultura è un valore indipendente (siamo consapevoli dell’impatto diseducativo che questo sistema ha prodotto sulla soggettività in formazione dello studente?).
E, infine, se in statistica valgono le letture dei trend, c’è un nuovo dato che va guardato con attenzione: l’armata delle undici università telematiche avanza agguerrita erodendo lo zoccolo duro dei potenziali iscrivibili alle università statali, gli studenti neodiplomati, quando, sino a ieri, il target di riferimento delle telematiche era quasi prevalentemente quello degli studenti lavoratori. In tempi di crisi di collocamenti lavorativi, anche le matricole hanno capito che allungare la permanenza all’università nuoce gravemente alla “salute” della ricerca del lavoro. Meglio tagliare il traguardo con una laurea online conseguita riducendo all’osso i programmi, il tempo dello studio, gli spostamenti. L’importante è il risultato: un titolo dal valore legale riconosciuto.
A leggere pedagogicamente il processo in atto, ciò che sta accadendo è che l’apprendimento rapide et à la carte sta soppiantando il lento e graduale apprendimento proprio di ogni modello che voglia dirsi autenticamente formativo. In questa pseudo-formazione costruita con pacchetti formativi acquistabili, intercambiabili, convalidabili, c’è qualcosa di fondamentale che sta venendo meno, ed è la mediazione umana fra docente e studente, che è parte fondamentale e insuperabile di un processo di apprendimento. E anche una certa atmosfera culturale che si respira solo in presenza e a contatto con modelli elevati. Ma se siamo arrivati al punto in cui è possibile acquisire il titolo di laurea studiando su dispense simil Scuola radio elettra e riuscendo a camuffare analfabetismo e incompetenza dietro un 110, allora forse è meglio avere una società con meno laureati e regole nuove (forse anche una legge nuova) che garantisca una formazione universitaria che torni a essere di qualità. E quindi degna di questo nome.
Riproduzione riservata