In Italia sono nove gli istituti penitenziari che sperimentano il rugby con l’obiettivo del recupero fisico, sociale ed educativo dei giovani detenuti. Nel carcere di Bologna 40 detenuti dai 20 ai 35 anni, con pene dai 4 anni all’ergastolo, formano la squadra di rugby Giallo Dozza.
Partecipano al campionato C2 della Federazione italiana Rugby. Ma giocano sempre in casa.
«Giallo» perché giallo è il cartellino con cui si viene ammoniti, ma da ammoniti c’è sempre la possibilità di riprendersi e rientrare in campo. Dozza perché «la Dozza» è il carcere di Bologna. A fine gennaio ospitava 750 detenuti, rispetto ai 500 posti regolamentari previsti. È qualche chilometro fuori le mura, verso Ferrara; non è più Bologna ma non è ancora qualcos’altro, se non, semplicemente, un carcere. Però anche dalla Dozza si vede la basilica di San Luca, che per i bolognesi, ma anche per i non bolognesi che vivono a Bologna da un po’, è un punto di riferimento, là, sul colle omonimo. Pure se si è musulmani ma «bolognesi» da un po’. Anche se, cinque volte al giorno, ci si ferma per pregare il proprio Dio girati verso Sud-Est. Anche da detenuti.
Ne La prima meta, diretto da Enza Negroni e prodotto da Giovanna Canè, non c’è soltanto la fatica del rugby e, poco alla volta, l’orgoglio che dalla fatica del rugby deriva. Ci sono anche le preghiere quotidiane dei detenuti di fede musulmana, e c’è il colle di San Luca. C’è l’interno del carcere, dove chi vi è costretto cerca di adattare gli spazi, organizzare la vita in cella, relazionarsi con gli altri. Cose alle quali, da fuori, non si pensa.
Il film non è un documentario sulla condizione carceraria, né uno spot per uno degli sport più belli del mondo. Ma dice molto, tanto dell’una quanto dell’altro.
Del rugby racconta il potenziale educativo nel senso più pieno: funziona con ragazzini liberi, che possono rotolarsi nel fango in una partitella su un campetto di provincia, aspettando il terzo tempo; ma funziona anche quando si trova applicato a uomini che hanno visto del brutto nella loro vita, e che spesso sono stati abituati a respingere l’altro, sempre e comunque, alla minima offesa. Con la violenza e la forza. I detenuti che partendo da zero scelgono di mettersi in gioco, letteralmente, si mettono anche in discussione, perché la visione del mondo si ribalta completamente. Spesso partono da condizioni fisiche pessime: c’è chi non corre da un mese, chi da tre anni. Ma alla fine il gruppo nasce e si consolida, soprattutto per merito del suo punto di riferimento (Max, l’allenatore), che mette i paletti, le regole che chi accetta di provarci deve rispettare, sempre e comunque.
Il film, che può contare sull’ottima fotografia di Roberto Cimatti, con alcune immagini di grande impatto, racconta di sbarre, cemento armato, confini di un vivere angusto. E al tempo stesso documenta, nel senso più pieno, la crescita di un gruppo di giovani uomini che scelgono di affidarsi l’uno all’altro, contro ogni logica di convivenza forzata.
Il progetto e il film si sovrappongono e si completano, eppure ognuno mantiene una propria autonomia e una propria rilevanza. Il progetto di squadra si scontra con le difficoltà burocratiche e può contare sul sostegno convinto della direttrice del carcere, Claudia Clementi, e sul lavoro dei suoi collaboratori. Il film riesce ad essere al tempo stesso documento e arte, realtà senza finzione ma – anche grazie al montaggio di Corrado Iuvara – racconto che dona emozioni e fa riflettere.
La prima meta, in concorso al 57 Festival dei popoli, nel 2017 arriverà nelle sale.
Se vogliamo che poco alla volta il carcere sia sempre meno «cimitero dei vivi», come lo chiamò Piero Calamandrei, e sempre più luogo di crescita umana, lo sport, come il lavoro e l’istruzione, è un canale decisivo. Con Bologna, altri otto istituti penitenziari italiani hanno scelto di credere nel rugby. A fine novembre, il Giallo Dozza ha avuto la meglio sulla squadra «gemella» di Torino, La Drola.
Riproduzione riservata