Di fronte alla nuova tragedia abbattutasi sul Centro Italia è difficile trattare di decimali dei conti pubblici ai quali ci ha vigorosamente richiamato la Commissione europea poco prima della recente calamità. Tuttavia bisogna farlo anche per capire dove arriva la politica e dove arrivano i bilanci e come nel binomio si inserisca l’economia, in Italia e in Europa.
È compito della politica attivare tramite le istituzioni quella solidarietà che, anche con l’apporto di soggetti privati, punta a minimizzare le sofferenze delle popolazioni colpite da calamità. Ma è anche compito della politica guardare lontano per progettare ed operare per il progresso civile, sociale ed economico che è alle fondamenta della costruzione europea.
È compito della economia trovare le risorse per fronteggiare dapprima l’emergenza e poi per provvedere alla ricostruzione e alla prevenzione. Ma è anche compito dell’economia combinare istituzioni e mercati per lo sviluppo che non è un risultato a breve ma a medio-lungo termine non conseguibile senza grandi investimenti innovativi adatti alle ondate tecnologiche.
È compito dei bilanci rendere compatibili le scelte della politica e dell’economia con le risorse presenti ma ancor più con quelle che possono essere mobilitate dalla crescita e sui mercati finanziari dove la divaricazione tra il Pil mondiale e la finanza globale ha raggiunto un rapporto che va da 1 a 4 fino 1 a 8. Su queste scale dimensionali solo Istituzioni grandi, come quelle dell’Eurozona e della Ue, il Fondo Esm e la Bei, possono operare anche per finanziare progetti di difesa dalle catastrofi naturali.
Più volte nel corso del 2016 abbiamo esaminato i problemi italiani rivenienti da disastri naturali segnalando delle stime come ordini di grandezza: dal 1968 al 2012 i costi per le finanze pubbliche dei ripristini conseguenti ai sette terremoti più gravi sono stimati in circa 120 miliardi di euro attualizzati; dal primo dopoguerra al 2012 i danni provocati da catastrofi naturali sono stimati in 240 miliardi di euro attualizzati; un euro investito in prevenzione si stima che ne fa risparmiare almeno 5 in ricostruzioni; 6 milioni di italiani sono stimati in zone a rischio idrogeologico e 20 milioni a rischio sismico.
Di fronte a queste cifre un Paese con finanza fragile e sismicità forte come l’Italia dovrebbe impostare un programma a lungo termine per fare con continuità e coerenza le opere di prevenzione e consolidamento. Ma anche in questo caso non potrebbe concluderlo date le dimensioni del problema. Dovrebbe allora essere la Ue a impostare un grande programma aumentando il bilancio comunitario, mettendo a pieno regime i molti Fondi a sua disposizione, utilizzando la Bei per cofinanziamenti e garanzie anche a emissioni obbligazionarie nazionali di scopo da non includere nei debiti pubblici.
Non basta infatti né per gli importi né per le finalità il Fondo di solidarietà dell’Unione europea (Fsue) varato nel 2002. Da allora è stato utilizzato per 72 interventi in 24 Paesi per coprire parte dei costi rivenienti da catastrofi naturali. Sino ad ora il Fondo ha erogato contributi per circa 4 miliardi di euro con un massimo di 500 milioni annui. Il Fondo ha erogato nel 2016 anche aiuti per 30 milioni all’Italia questo essendo l’anticipo massimo erogabile.
La Commissione ha anche proposto di modificare regolamenti europei per finanziare in misura maggiore, ove necessario, le grandi operazioni di ricostruzione attraverso il Fondo europeo di sviluppo regionale che unitamente al Fondo sociale europeo è beneficiario sul programma settennale della Ue di 256 miliardi di euro. La direzione è giusta ma vedremo quali saranno gli esiti.
Abbiamo detto che, purtroppo, l’Italia ha pochi spazi di bilancio per fare le opere di prevenzione e di ricostruzione anche se può tentare di ricomporre meglio la spesa pubblica. Lo dimostra anche il recente fatto della Commissione europea che ha chiesto al governo il 17 gennaio scorso di ridurre il saldo del bilancio strutturale dello 0,2% del Pil con un impegno vincolante entro il 1o febbraio. Contabilmente la Commissione ha ragione ma sostanzialmente dovrebbero essere la politica e l’economia a decidere se l’Italia ha bisogno di uno spazio di bilancio nel 2017 per consolidare la crescita e rilanciare la produttività. E se lo spazio fosse concesso, allora toccherebbe al governo italiano di farlo fruttare. La legge di bilancio 2017 è proprio impostata a quel fine con la riduzione dell’Ires dal 27,5% al 24% lungo una traccia auspicata da tempo per l’Italia dagli organismi europei e internazionali. Non meno importante è il super-ammortamento per gli investimenti innovativi (in linea con progetto industria 4.0) sia per quelli in ricerca e sviluppo che molto incidono sulla produttività. Si stima che il costo sia di 3 miliardi. Ed allora la Commissione potrebbe vincolare quei 3,4 miliardi di correzione richiesta ai citati investimenti per non bloccare una strategia innovativa. La Commissione rileva che ha già concesso un margine di bilancio per gli investimenti e le riforme nei due anni precedenti ma non dice che impedendoli quest’anno potrebbe danneggiare la crescita del Pil e la produttività. È vero che il nostro rapporto tra debito pubblico e Pil è al 132,2% ma è anche vero che senza il consolidamento della crescita non si stabilizzerà per poi cominciare a scendere.
Purtroppo in Europa la politica e l’economia sono state troppo subordinate ai bilanci che a loro volta sono stati ingabbiati in regole troppo strette talché annualmente ogni Stato membro si trova costretto a scelte che rendono difficile programmare a medio-lungo termine. Ma anche l’Europa non programma a medio-lungo termine malgrado i suoi piani finanziari poliennali che hanno durata di 7 anni. Il loro problema è che sono troppo piccoli, pari all’1% annuo del Pil della Ue. Quei grandi progetti come la messa in sicurezza del territorio) che l’Unione potrebbe garantire, cofinanziare e controllare, data la forza della sua dimensione, rimangono così sogni nel cassetto.
[Questo articolo è stato pubblicato su «Il Sole – 24 Ore» del 21 gennaio]
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