Da molti anni in America si discute della crescente polarizzazione della politica. Un fenomeno che coinvolge in maniera più o meno accentuata molti Paesi. Ma anche in Italia assistiamo a una polarizzazione del conflitto? Per orientarsi su questo aspetto è opportuno rivolgersi, ancora una volta, a Giovanni Sartori, uno dei massimi politologi del Novecento. Sartori introdusse negli anni Sessanta una classificazione dei sistemi di partito destinata a diventare il riferimento per tutta la letteratura mondiale sul tema; e, per quanto il suo schema abbia valore generale, in alcune sue parti è ispirato dal caso italiano.

In quegli anni il nostro sistema partitico era caratterizzato dalla presenza di molti partiti, con un grande partito collocato al centro – la Democrazia cristiana – che rimaneva sempre al governo grazie al sostengo di un numero variabile ma ben definito di quattro piccoli alleati. La stabilità dipendeva dal fatto che, alla destra e alla sinistra delle coalizioni di governo, vi erano delle opposizioni “irresponsabili”, vale a dire, nella terminologia sartoriana, portatrici di valori e ideologie incompatibili con i fondamenti del sistema costituzionale. Il Partito comunista e i neofascisti del Movimento sociale, collocati ai poli estremi di sinistra e di destra, costituivano opposizioni ideologicamente inconciliabili con il sistema politico; inoltre la loro politica, sia a livello visibile sia invisibile (cioè attraverso messaggi subliminali o coperti all’interno delle rispettive organizzazioni), puntava a delegittimare il sistema. In estrema sintesi, queste caratteristiche configurano il celebre pluralismo polarizzato.

Ma in che cosa consisteva esattamente la polarizzazione? Sartori utilizza due indicatori per individuarla: la temperatura e la distanza ideologica. Il primo indicatore rimanda a quanto sia aspro e ultimativo il conflitto tra i partiti, a quanto alta sia la febbre ideologica. Il secondo segnala la distanza empiricamente misurabile tra i partiti: più precisamente, quanto siano distanti i partiti estremi su una scala destra-sinistra dove 10 è il valore massimo di destra e 0 quello massimo di sinistra (o viceversa). La posizione di un partito su questa scala destra-sinistra è desunta dalle risposte che forniscono i cittadini che si identificano con quel partito, i quali gli attribuiscono un determinato valore. In tal modo ogni partito ha un suo punteggio. I sistemi scarsamente polarizzati hanno una distanza ridotta tra quello più a destra e quello più a sinistra. Quelli polarizzati mostrano invece un grande divario.

In Italia, da quando si operano queste indagini, il gap tra l’estrema destra e l’estrema sinistra è sempre stato altissimo. E questo non solo nel corso della cosiddetta Prima Repubblica, quando si votava con il proporzionale: anche dopo il 1994, quando si è votato con sistemi più o meno maggioritari. In alcuni anni la distanza si è poi un po' accorciata, salvo impennarsi di nuovo soprattutto nelle ultime elezioni, dove i tre partiti di destra sono concentrati, con poca differenza tra l’uno e l’altro, intorno al valore 9 su 10 della scala destra-sinistra.

In Italia, il gap tra l’estrema destra e l’estrema sinistra è sempre stato altissimo. E non solo nella Prima Repubblica

Il conflitto destra-sinistra sembra quindi tornato in tutta la sua forza, imponendo una ulteriore fiammata polarizzante. Ovviamente in un Paese profondamente diviso e di scarsa cultura democratica e di quasi inesistente cultura liberale (il termine liberal-democratico pone una serie di problemi, come sottolinea Nadia Urbinati in The Ambiguities of “Liberal-Democracy”, “Polis: The Journal for Ancient Greek and Roman Political Thought”, vol. 36, n. 3/2019), la polarizzazione tiene sempre in tensione il sistema. Ridurla è quindi cosa buona. Ma non al costo devastante di annebbiare le posizioni tra i partiti e gli schieramenti.

La visione di un grande centro dove si rifugia la gran parte degli elettori, punto focale del celeberrimo lavoro di Antony Downs La teoria economica della democrazia (trad. it. Il Mulino, 1988), è da tempo depassé. Essa rifletteva un particolare contesto storico e geografico, le democrazie anglosassoni degli anni Cinquanta, dove i maggiori partiti convergevano verso il centro perché condividevano buona parte delle rispettive politiche. In Gran Bretagna, quando i conservatori tornano al potere nel 1951, non smantellarono il Welfare system del governo laburista di Clement Attlee e non toccarono nemmeno le nazionalizzazioni. Lo stesso negli Stati Uniti: l’eredità rooseveltiana del New Deal fu in parte accettata dai Repubblicani. Anche perché gli “indipendenti” che non si riconoscevano né nell'uno né nell'altro partito erano molti e dovevano essere conquistati.

È sorprendente come venga ignorato che la rottura dell’age of consensus nelle democrazie anglosassoni sia venuta dalla destra, dal neo-conservatorismo. I neo-con americani, con un gruppo di ideologi anche di provenienza trotzkista (Irving Kristol su tutti), hanno lanciato l’attacco alle fondamenta del New Deal identificando nello Stato e nelle sue funzioni sociali il nemico da abbattere: “The government is the problem”, sentenziò Ronald Reagan. Lo stesso accadde in Gran Bretagna con la conquista della leadership del partito e poi del governo da parte di Margaret Thatcher, che emarginò rapidamente i wet della corrente sociale di One Nation. Ma quello non è stato che l’inizio. Progressivamente la polarizzazione negli Stati Uniti, in particolare, si è impennata a valori mai visti prima. Donald Trump non ha fatto altro che dare voce a quello che ormai circolava in tanta parte dell’elettorato di destra. Gli esempi riportati da Ezra Klein (Why we’re Polarized, Profile Books, 2020) sono tanto illuminanti quanto sorprendenti.

Questa tendenza a spostare sempre più a destra il baricentro politico ha avuto due effetti principali. Da un lato, ha trovato la sinistra incapace di reagire: una volta che le veniva sfilato il mito dello Stato-provvidenza e il mercato diventa il nuovo totem intangibile, non sapeva più cosa proporre sul terreno socio-economico. Per sua fortuna la sinistra ha trovato un altro terreno di competizione in cui ha ripreso in mano il gioco: l’agenda libertaria dei diritti civili. Lanciata inizialmente dai Verdi, in primis dai Grünen tedeschi, negli anni Ottanta, è stata poi adottata dai partiti socialisti. Proprio su molti aspetti libertari e sul terreno dei diritti sul piano etico-morale i partiti di sinistra hanno conquistato nuovi ceti sociali metropolitani, acculturati, di classe media e medio-alta. Questo spostamento dall’asse economico a quello valoriale ha tenuto a galla i partiti socialisti, ma a un costo: la perdita di parte dell’elettorato popolare, variamente disperso, in parte verso l’estrema destra, in gran parte verso l’astensione (cfr. D. Tuorto, Underprivileged Voters and Electoral Exclusion in Contemporary Europe, Palgrave, 2022).

Lo spostamento dall’asse economico a quello valoriale ha tenuto a galla i partiti socialisti, ma a un costo: la perdita di parte dell’elettorato popolare, variamente disperso, in parte verso l’estrema destra, in gran parte verso l’astensione

Dall’altro lato, invece, i neoconservatori, radicalizzando le loro posizioni, hanno spianato la strada all’irruzione di formazioni ancora più estreme, di cui il Front national francese (ora Rassemblement national) della famiglia Le Pen rappresenta l’archetipo.

La forbice politica si è quindi allargata in tutta Europa, rincorrendo paradossalmente le caratteristiche del sistema partitico italiano d’antan. E non c’è possibilità, ad avviso di chi scrive, di un rewind. Perché l’efficienza elettorale dei partiti non dipende più dalla rincorsa di un mitico elettore mediano, vestigia di una politica che fu, bensì dall’enfatizzare le proprie posizioni distinguendole nettamente da quelle degli altri attori politici. Lo schema di Antony Downs, definito proximity, è stato soppiantato da quello introdotto da George Rabinowitz e Stuart Mcdonald (A directional theory of issue voting, “American political science review”, vol. 83 n.1/1989), detto directional. Vale a dire, l’elettore viene catturato da un partito quando questo offre posizioni chiare, nette, precise, distinte; non quando le diluisce cercando di aggregare un numero maggiore di votanti, che invece si disperdono perché non trovano ragione di identificarsi.

Per cui, gli inviti alla depolarizzazione e addirittura a superare la divisone destra-sinistra riproponendo ancora una volta un governo dei sapienti, sono destinati a scontrarsi con l’insofferenza e il fastidio degli elettori che non vogliono essere guidati come scolaretti da supposti esperti. Il fallimento in Italia di Scelta civica, scioltasi come neve al sole dopo il mancato successo del 2013, la recente rottura dei due iper-narcisi del Terzo Polo, l’illusione che l’agenda Draghi avesse un qualche appeal al di là degli ovattati salotti della classe dirigente, dovrebbero ormai rendere chiaro che l’elettorato vuole esprimere le proprie preferenze in termini univoci. Il successo di FdI, unico partito all’opposizione del governo Draghi, dovrebbe avere insegnato qualcosa: solo chi takes stand chiaramente, vince. Infine, l’annebbiamento delle differenze tra i partiti a favore di un indistinto embrassons-nous contribuisce a fomentare atteggiamenti di rifiuto della politica – “sono tutti uguali” – che alimentano partiti estremi e populisti oppure apatia e astensionismo.