Sexual politics: è questo il terreno di scontro politico su cui in modo più evidente si misurano le incertezze, le ansie, le paure di una società americana profondamente divisa. Era questo il titolo del libro di Kate Millett che, nel 1970, svelava come il rapporto di dominio fra i sessi dovesse essere considerato elemento fondativo dell’ordine politico, ancor più della classe e della razza. A 46 anni di distanza, la «politica del sesso», riveduta e corretta per tener conto delle identità di genere e della necessità di intrecciarla con le differenze di razza, classe ed etnia, domina il dibattito statunitense (e non solo).
La riflessione femminista ha da tempo messo in luce come attorno alle questioni del corpo, dei diritti riproduttivi, delle identità di genere si misurano i confini dell’ordine politico e il modo in cui si dispiegano i diritti di cittadinanza. Non è casuale, quindi, che nel mezzo di una delle più aspre e imprevedibili campagne elettorali, la «sexual politics» giochi un ruolo significativo a livello comunicativo, nel tipo di linguaggio usato (da Donald Trump ma non soltanto da lui), nel modo in cui vengono veicolati stereotipi e rappresentazioni che alimentano le ansie di chi teme «il disordine» dei ruoli sessuali e di genere e la messa in discussione di rassicuranti visioni di ciò che appare o viene ritenuto «naturale». Ma lo scontro si sviluppa anche su materiali e concreti spazi di agibilità politica e ampliamento dei diritti delle donne e della comunità Lgbtq.
Diverse sono state le questioni che, nelle ultime settimane, hanno infiammato il dibattito e il conflitto politico e legislativo fra democratici e repubblicani, liberal e conservatori. Un conflitto che è anche istituzionale in quanto si gioca su una contrapposizione fra chi, come Obama e i suoi ministri, impegna in modo sempre più deciso il governo federale a promuovere e ampliare l’agenda dei diritti, e chi, come i conservatori e i repubblicani, in nome degli «states’ rights», tenta di vanificare anni di lotte e acquisizioni giurisprudenziali. Negli stessi giorni in cui l’attenzione è sembrata concentrata sul linguaggio misogino e sulle relazioni sessuali di Trump, questioni più sostanziose dal punto di vista politico si sono aperte. In primis, il contenzioso su ciò che appare sempre di più come la nuova frontiera dei diritti civili, vale a dire quelli della comunità Lgbtq. Il ministero della Giustizia e quello dell’Istruzione hanno varato delle linee guida intese a permettere agli studenti transgender di scegliere quale bagno pubblico usare sulla base della propria identità di genere e non del sesso di nascita. Non solo, il ministero della Giustizia ha avviato un’azione giudiziaria nei confronti dello Stato della North Carolina che ha approvato una legge intesa proprio a proibire alle persone transgender di scegliere sulla base dell’identità che sentono propria. La ministra della Giustizia, Loretta Lynch, ha esplicitamente richiamato le leggi segregazioniste del Sud che, ad esempio, proibivano a una donna nera di usare i bagni riservati alle bianche; proibizione che in molti Stati si è cercato di mantenere anche dopo l’approvazione delle leggi per i diritti civili, utilizzando le argomentazioni più varie, come quelle relative alla possibilità di diffusione di malattie veneree. Non casualmente il tema della salute pubblica è stato utilizzato proprio in North Carolina all’interno di uno spot sui presunti pericoli derivanti da politiche antidiscriminatorie Lgbtq, che avrebbero indotto alcuni a intraprendere «deviant actions» e «a utilizzare in modo improprio norme sbagliate». I repubblicani, poi, hanno di nuovo ventilato lo spettro dell’«executive overreach», di un uso abnorme del governo federale lesivo dei diritti costituzionali degli Stati. Obama ha sostenuto con forza l’azione di Lynch: «fa parte dei nostri obblighi verso la società far sì che ognuno sia trattato in modo equo». L’importanza della difesa della dignità umana di tutti e tutte è stata poi ribadita in un discorso pronunciato in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia.
Nonostante gli appelli di Obama, giovedì scorso la Camera del Congresso sembrava il Parlamento italiano dei giorni migliori con urla e insulti lanciati dai democratici nei confronti degli avversari. Al centro, di nuovo, un emendamento presentato dal deputato democratico Maloney al National Defense Authorization Act che stabiliva una norma a favore della comunità Lgbtq, secondo la quale il governo federale deve stipulare contratti solo con imprese che rispettano politiche antidiscriminatorie. Non era una novità. Già nel luglio 2014 Obama aveva emanato un executive order che stabiliva tale principio. Da qui le aspettative su un consenso che sembrava palesarsi in modo trasversale fra i due partiti, visto che lo stesso speaker repubblicano non aveva sollevato obiezioni. Tanto è vero che a una prima espressione del voto, l’emendamento sembrava passato. Poi, approfittando del fatto che la votazione era ancora aperta, alla conferma conclusiva del proprio voto, alcuni deputati repubblicani hanno cambiato idea (o meglio, sono stati convinti a farlo secondo l’accusa dei democratici) e l’emendamento è stato respinto, facendo esplodere le proteste dei democratici. Secondo alcuni deputati repubblicani, ciò è dipeso dal fatto che se l’emendamento fosse passato, l’intero provvedimento non sarebbe stato votato dalla maggioranza repubblicana, bloccando così lo stanziamento di fondi a favore di veterani e membri delle forze armate.
Non sono mancate neppure le sempre presenti iniziative intese a limitare i diritti delle donne, inclusi quelli riproduttivi. Sempre in relazione al National Defense Authorization Act (Ndaa), i repubblicani hanno cercato di mettere un limite alla possibilità delle donne di arruolarsi. Non per spirito pacifista, ma in nome della supposta vulnerabilità delle donne, soggetti da proteggere per definizione. Più importante è ciò che è avvenuto in Oklahoma, dove, in linea con quel che accade in altri Stati repubblicani, si è consumato l’ennesimo tentativo di vanificare la sentenza Roe v. Wade del 1973 che ha permesso alle donne di ricorrere all’aborto. In Oklahoma, tuttavia, per la prima volta è stata approvata una legge che considera l’aborto un reato grave e prevede il ritiro della licenza ai medici che praticano l’aborto con condanne fino a tre anni di carcere. Sono previste eccezioni solo in caso di pericolo grave per la salute della donna o se la gravidanza è risultato di uno stupro o di un incesto. Non è ancora chiaro se la governatrice firmerà una legge in palese contraddizione con la sentenza del 1973. In uno Stato che attraversa una grave crisi a causa della recessione economica e del crollo del prezzo del petrolio, la risposta è nei tagli su sanità e istruzione, in nome del dogma neoliberista. Ciò che è significativo però in tale contesto è che il controllo della libertà riproduttiva della donna è diventato una priorità all’interno dell’ordine politico conservatore.
In un clima di profonda incertezza e instabilità economica, sociale e identitaria, il partito repubblicano ripropone dunque la centralità di politiche di controllo del corpo, della sessualità, dei diritti, inclusi quelli riproduttivi, come tasselli costitutivi di un ordine politico che cerca pervicacemente di contrastare l’allargamento dei processi di cittadinanza politica. Così facendo, tuttavia, il divario fra le due Americhe - per riprendere una famosa frase che John Dos Passos pronunciò in occasione del processo a Sacco e Vanzetti - si sta ampliando sempre di più e, purtroppo, né Hillary Clinton né tantomeno Donald Trump sembrano possedere quelle capacità di leadership in grado di colmarlo.
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