Lo scorso 28 maggio, in coincidenza con il 49° anniversario della strage di piazza della Loggia, Valerio Fioravanti, fondatore dei Nuclei armati rivoluzionari, tra le principali formazioni della destra eversiva degli anni Settanta e Ottanta, ha pubblicato un articolo sull’“Unità”, lo storico quotidiano comunista fondato nel 1924 da Antonio Gramsci. Oggi il giornale è diretto da Piero Sansonetti, a lungo direttore del “Riformista”, tra le tribune principali del garantismo, ossia quel movimento d’opinione che si richiama alla tradizione liberale ottocentesca di rispetto e salvaguardia dei diritti individuali e delle garanzie costituzionali contro le interferenze e gli abusi dei pubblici poteri.
Nella sua declinazione italiana, il garantismo si è tradotto in un campo di forze eterogeneo, con retroterra politici, giuridici e culturali molto diversi. Negli anni dell’emergenza terroristica, i “garantisti” – avvocati, esperti di diritto, dirigenti e militanti politici, religiosi, giornalisti, intellettuali – erano scesi in campo per contrastare quello che a loro modo di vedere erano dei veri e propri abusi commessi dallo Stato nella repressione dapprima dei movimenti di protesta e in un secondo momento dei gruppi armati di sinistra. Il terrorismo di destra aveva intercettato quest’area della società civile solamente alla fine del decennio Settanta, quando era subentrata una seconda generazione di militanti, la stessa a cui apparteneva Fioravanti, che aveva apertamente attaccato lo Stato democratico. Dopo la strage di Bologna del 2 agosto 1980, di cui in sede giudiziaria, con la sentenza della Corte di Cassazione del 23 novembre 1995, sono stati ritenuti responsabili materiali Valerio Fioravanti, la sua compagna Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, il numero di giovanissimi estremisti di destra finiti sotto inchiesta da parte della magistratura aumentò notevolmente, in un momento in cui si stavano sviluppando le principali indagini giudiziarie sulle stragi che avevano insanguinato il Paese, in particolar modo nel 1974.
Conclusasi la stagione del terrorismo, la rete “garantista” rimase in piedi, a cavallo tra la società civile e il sistema politico, partecipando alle battaglie volte a tutelare i diritti civili nella lunga sequenza di emergenze, alcune delle quali mai davvero conclusesi, che segnarono la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica: lo scandalo di Tangentopoli, i grandi processi di mafia, lo scontro tra potere politico e autorità giudiziaria negli anni di maggior impatto del berlusconismo, il lungo e difficile confronto tra politica e magistratura arrivato fino ai giorni nostri. È impossibile, in questa sede, tracciare l’evoluzione di un’area così eterogenea, la cui finalità sarebbe ingenuo ridurre alla nobile e necessaria difesa dello Stato di diritto, tanto più in un Paese come l’Italia in cui la lotta per il potere è tradizionalmente opaca e sovente si gioca in terreni dove operano gruppi d’interesse, tante appendici della criminalità organizzata e quei settori occulti delle istituzioni sottratte a ogni controllo democratico, ieri come oggi.
Non si comprende, altrimenti, l’intervento di Fioravanti senza riferirsi a questa storia e a questo contesto. Nel suo articolo sull’“Unità”, l’ex terrorista si è soffermato sul fallimento del carcere militare di Guantanamo, dopo le dichiarazioni di condanna recentemente pronunciate da alcuni ex esponenti dell’amministrazione Bush che ne avevano favorito la nascita. Il carcere è collocato nell’omonima base navale che gli Stati Uniti detengono sull’isola di Cuba, divenuto, a partire dal gennaio 2002, il luogo di reclusione dei sospetti terroristi in seguito agli attentati jihadisti dell’11 settembre 2001 e alle operazioni militari intraprese da Stati Uniti e Gran Bretagna in Afghanistan nell’ottobre dello stesso anno. Ritenuto un “buco nero dei diritti umani”, il campo di prigionia, ancora in funzione, è da lungo tempo ritenuto l’emblema della crisi della democrazia e degli abusi commessi in nome dell’emergenza securitaria dell’antiterrorismo globale. Fioravanti, dunque, interviene su un tema delicato, non soltanto in nome del suo passato militante, ma anche come membro dell’associazione Nessuno tocchi Caino, fondata nel 1993 e vicina al Partito radicale, da sempre impegnata a difesa dei diritti dei detenuti e per l’abolizione della pena di morte, e che ha avuto tra i suoi fondatori, tra gli altri, Sergio D’Elia, ex militante del gruppo armato di sinistra Prima Linea. Lo stesso D’Elia sarebbe stato, solamente un anno dopo, nel 1994, tra i primi firmatari del Comitato “E se fossero innocenti?”, composto da intellettuali e figure pubbliche di diverso orientamento culturale e politico convinti della non colpevolezza di Mambro, Fioravanti e Ciavardini per la strage di Bologna e mobilitatesi a loro sostegno.
Com’era prevedibile, l’uscita pubblica di Fioravanti sull’“Unità” ha suscitato un’ondata di sdegno e diverse polemiche. Si tratta di un’antica querelle legata all’opportunità o meno che gli ex terroristi abbiano così tanta visibilità e la loro parola così vasta eco. La si potrebbe retrodatare al 1983 quando, in piena emergenza terroristica, Toni Negri, tra i principali teorici dell’Autonomia operaia e al centro di un’intricata vicenda giudiziaria poiché sospettato di essere il cervello politico alla guida delle diverse componenti dell’area armata, entrò in Parlamento candidato dal Partito radicale di Marco Pannella, mentre era latitante in Francia. Negli anni successivi, in un contesto politico e sociale diversissimo, si ripeterono casi simili, come quando, ad esempio, l’ex militante delle Brigate Rosse e di Prima Linea Susanna Ronconi dovette rinunciare, più di una volta, ad alcuni incarichi istituzionali ottenuti in qualità della sua esperienza maturata nel campo del contrasto alle droghe pesanti, una volta estintasi la sua pena nel 1998. Nel 2006 fu il turno di Sergio D’Elia eletto deputato per la Rosa nel Pugno, divenendo, in seguito, segretario alla presidenza della Camera, suscitando la protesta di alcuni famigliari delle vittime del terrorismo. C’è da dire che in proposito le posizioni interne all’associazionismo vittimario sono molteplici, alcune delle quali orientate ad una graduale apertura verso il pieno reinserimento in democrazia degli ex membri dei gruppi terroristici di destra e di sinistra che abbiano regolato i loro conti con la giustizia. Il problema, in realtà, non investe solamente le cariche pubbliche, ma la presa di parola degli ex terroristi che godono da lungo tempo di una visibilità mediatica senza precedenti, grazie anche all’implementazione delle tecnologie digitali, per non parlare del mercato editoriale inondato, fin a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, delle loro testimonianze e delle loro memorie. Una sovraesposizione che è stata oggetto di riflessione critica dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel discorso celebrativo del “Giorno della memoria delle vittime del terrorismo”, svoltosi al Quirinale lo scorso 9 maggio. Una ricorrenza particolarmente significativa perché, in più di un passaggio, si è fatto riferimento alle responsabilità di parte delle istituzioni nella copertura e nel sostegno del terrorismo stragista.
Siamo dunque in presenza di un tema estremamente divisivo, in particolar modo dal punto di vista dell’etica pubblica, che negli anni tende a ripresentarsi in forme simili, sebbene in riferimento a contesti e a casi molto diversi tra loro, come abbiamo avuto modo di vedere. Chi si schiera a difesa del diritto di parola e della partecipazione alla vita civile – e tra loro tanti ex terroristi – si scaglia contro chi, tacciato di moralismo integralista, vorrebbe per lo meno che queste garanzie fossero ponderate sulla necessità di salvaguardare le più elementari norme di convivenza all’interno di una democrazia uscita stremata dagli anni dell’emergenza terroristica. Bisognerebbe riflettere sul supposto moralismo delle vittime perché pone, in realtà, un problema di vitale importanza, ossia l’inviolabilità del rispetto e della dignità di chi subì la violenza in quegli anni drammatici.
Bisognerebbe riflettere sul supposto moralismo delle vittime, perché pone un problema di vitale importanza, ossia l’inviolabilità del rispetto e della dignità di chi subì la violenza in quegli anni drammatici
In linea di principio non ci sarebbe niente da ridire sulla possibilità concessa a Fioravanti di intervenire sull’“Unità”, tra l’altro su temi legati alla condizione carceraria. La sua presenza non è oltraggiosa in sé. Da un punto di vista politico, tuttavia, non può essere ignorata la circostanza che l’ex terrorista si è conquistato uno spazio di visibilità all’interno di un quotidiano la cui lettura o il cui possesso negli anni Settanta e Ottanta poteva essere sufficiente per legittimare il ricorso alla violenza da parte dei militanti neofascisti: dal pestaggio agli accoltellamenti, fino al ferimento con armi da fuoco e all’omicidio vero e proprio, com’era accaduto a Ivo Zini, simpatizzante comunista ucciso, il 28 settembre 1978, di fronte alla sezione del Pci del quartiere Alberone di Roma mentre leggeva una copia dell’“Unità” esposta in bacheca, colpito da un commando di estremisti di destra limitrofi ai Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Fioravanti. Una miriade di episodi di violenza e di attentati minori su cui negli anni è calato il silenzio più assoluto. Tra l’altro a leggere bene l’intervento di Fioravanti è possibile riconoscere le stesse argomentazioni e gli stessi temi che la pubblicistica di estrema destra, interna ed esterna al carcere, scriveva a proposito delle sentenze giudiziarie riguardanti la strage di Bologna, accusate di aver confinato in un “lager democratico” le nuove generazioni rivoluzionarie che avevano sfidato la Repubblica corrotta dall’alleanza mortale, a loro dire, tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista.
Oggi, però, sembra di vivere in un mondo rovesciato, dove i lupi si travestono da agnelli, in cui gli ex carnefici riescono a farsi passare come perseguitati. Secondo la loro visione, la nostra società sarebbe dominata dal cosiddetto paradigma vittimario, una vera e propria religione civile, ormai egemone su scala globale, sprigionatasi dal cuore dell’Occidente liberale e poi diffusasi nel resto del mondo. Un processo progressivo e inarrestabile, iniziato alla conclusione della Prima guerra mondiale e lentamente affermatosi con il graduale collocarsi della Shoah nel paesaggio mentale e culturale delle democrazie occidentali. In questo passaggio, l’ideologia vittimaria ha avuto la funzione di naturalizzare l’ordine dominante, attraverso una visione della storia “in cui non vi sono più vinti ma solo vittime” irriconoscibili l’una dall’altra, travolte da una violenza anch’essa indistinta, priva di senso e svuotata di ogni contenuto politico. A questo proposito, Daniele Giglioli, in un suo celebre contributo, ha scritto dell’ideologia vittimaria come «primo travestimento delle ragioni dei forti».
Oggi sembra di vivere in un mondo rovesciato, dove i lupi si travestono da agnelli e gli ex carnefici riescono a passare da perseguitati. In una società che, secondo la loro visione, sarebbe dominata da un paradigma vittimario
Le vittime del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta sarebbero la rappresentazione plastica di nuovo patto fondativo: in virtù dell’universalità della loro testimonianza, ritenuta perciò inattaccabile; per la sacralità attribuita alla loro parola, sovrastante su tutte le altre; per la verità assoluta e indiscutibile incarnate dalla loro testimonianza; infine, in ragione della loro narrazione, egemonica e onnipresente. Non c’è dubbio che nell’ultimo quindicennio la parola delle vittime ha recuperato visibilità nello spazio pubblico, pur tra tante contraddizioni. Alla prova della ricostruzione storica, tuttavia, l’idea del paradigma vittimario come instrumentum regni trova poco o quasi nessun riscontro. Semmai a prevalere è stata l’iniziativa dal basso di molteplici attori politici e sociali, attraverso la combinazione tra impulso istituzionale e mobilitazione collettiva.
Si tratta di un processo impossibile da analizzare in questa sede. Oggi, con la più grave crisi del modello democratico dopo gli anni Venti e Trenta del Novecento, questo quadro interpretativo ha perso di smalto. C’è da chiedersi, infatti, se la centralità della vittima nell’elaborazione della memoria collettiva che ha caratterizzato le società occidentali negli ultimi trent’anni possa essere liquidata come mero ciarpame ideologico. Tanto più con l’arrivo al governo, non solo in Italia, di un’estrema destra che sulla ridefinizione del proprio passato ha costruito una delle sue prerogative. Può darsi che l’appartenenza politica di Valerio Fioravanti non debba darsi per scontata, come è accaduto in tante traiettorie politiche ed esistenziali sprigionatesi da quella stagione. Certo è che, in virtù della sua biografia politica, la parola liberata di Fioravanti non appartiene agli sconfitti della storia, ma fa eco a un vasto campo di forze che ha appena iniziato a riscrivere la propria storia.
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