L’Algeria è forse l’unico Paese in cui un romanziere deve giustificare davanti alla legge il comportamento dei suoi personaggi. È successo al giovane scrittore Anouar Rahmani. La Costituzione algerina, che lui conosce bene in quanto studente di legge, dall’indipendenza del Paese, nel 1962, è stata modificata più volte, ma ha sempre previsto la libertà di parola e di opinione. Tuttavia, la carta non è servita a niente quando, nel febbraio di quest'anno, Rahmani è stato convocato dalla polizia giudiziaria per fornire spiegazioni su un romanzo che aveva pubblicato qualche mese prima su Internet, La città delle ombre bianche. Dopo 10 ore di interrogatorio senza troppi complimenti ha capito che intendevano accusarlo di violazione del famigerato articolo 144 bis, comma 2, del codice penale algerino, introdotto nel 2006, che punisce i blasfemi con «il carcere da tre a cinque anni e una multa da 50.000 a 100.000 dinari (da 421 a 842 euro) a chiunque offenda il profeta (la pace e la salute su di lui) e gli inviati di Dio o denigri il dogma o i precetti dell’Islam, per iscritto, in disegni, dichiarazioni o qualsiasi altro mezzo».

Questo perché nel suo romanzo, in una sola scena di un capitolo, compare un personaggio pazzo che si fa chiamare Allah (Dio) e conversa con un bambino a proposito della sua presunta divinità. Dopo l’interrogatorio, Rahmani non è stato trattenuto e ora si trova in libertà in attesa della formalizzazione dell’accusa da parte della magistratura (attesa che potrebbe durare molto, visto che sono passati già sei mesi senza novità) ma gli è stato ritirato il passaporto. Ha già dovuto declinare inviti a convegni in Libano e Francia.

Sono riuscito a raggiungere Anouar per intervistarlo e farmi raccontare la sua esperienza di scrittore scomodo. Anouar parla abbastanza bene l’italiano, che ha imparato seguendo i programmi della Rai.

Anouar racconta che è stato praticamente costretto a pubblicare il romanzo su internet, dato che le case editrici algerine hanno paura di dare alle stampe storie che creino qualsiasi tipo di problemi con le autorità. Il suo primo romanzo, Le allucinazioni di Gabriele, era riuscito a vedere la luce soltanto dopo molti tagli richiesti dall’editore.

«In Algeria in genere si legge poco e un romanzo che vende un migliaio di copie si può già considerare un best seller. I 12.000 lettori che La città delle ombre bianche ha totalizzato in soli due mesi rappresentano un grandissimo successo di pubblico», che però ha fatto tendere le orecchie ai severi guardiani dell’ordine e della rivoluzione. «Scrivo non perché abbia scelto in particolare la letteratura ma perché la letteratura ha scelto me. Ho sempre scritto per parlare di quello che mi stava a cuore, per protestare contro l’autorità. Le prime poesie a otto anni, la prima pièce teatrale a tredici, il primo romanzo a ventitré. Non sopporto la dittatura e l’autoritarismo, e nella letteratura vedo una forza che riesce a smuovere le persone. La società è fatta di individui e quindi la repressione della libertà non deve esistere, la mia è una guerra di intellettuale impegnato, mi piacerebbe essere una guida e un modello per le persone che mi leggono». «Il mio primo romanzo, Le allucinazioni di Gabriele, come tutti i romanzi è un organismo biologico. I tagli che mi hanno costretto a fare per me sono come delle amputazioni di arti. Il mio romanzo può ancora camminare, ma non può correre perché adesso ha un handicap. Ma vive lo stesso».

Il secondo romanzo, quello incriminato, è stato accusato di avere «infangato l’immagine della rivoluzione», perché il protagonista, un partigiano algerino della guerra d’indipendenza contro la Francia (1954-1962), è omosessuale e ha una relazione con un pied-noir, un algerino di origine europea ai tempi del colonialismo francese. Rahmani sostiene che questo non vuol dire infangare la rivoluzione, ma solo ripristinare la realtà dei fatti e raccontare di persone che la narrazione rivoluzionaria ha preferito escludere. Nell’ultimo mese il suo caso ha visto una grandissima risonanza mediatica, anche sui media internazionali come Middle East Eye e RFI (Radio France Internationale). La notorietà per lui è un segno che molte persone non aspettano altro che una voce che dia loro speranza, e cominciano a parlare e discutere dei problemi del paese.

Ma perché usare un romanzo invece che un saggio di denuncia? «In realtà ho scritto una serie di reportage su «El Watan», uno dei più grandi quotidiani del Paese, oltre che pubblicare post sul mio blog. È stata una bellissima esperienza perché ho conosciuto bravissimi editor e giornalisti che mi hanno aiutato molto ad affinare la prosa in generale, e l’espressione in francese in particolare. La scelta del romanzo non è stata casuale, è una forma che mi piace e penso che abbia una forza magica che il saggio non ha. La collaborazione con «El Watan» è terminata ma non per volontà dei giornalisti, e mi dispiace moltissimo, è stato un vero peccato e ho mantenuto un ottimo rapporto con molti di loro.

«Ora aspetto che la magistratura formuli l’accusa ma non ho fiducia nella giustizia algerina perché è un’arma politica nelle mani degli imam. Non ho mai parlato dell’Islam o del profeta nel mio libro. La questione è che il protagonista è ateo ed è un combattente della rivoluzione algerina, e allora in questo modo si macchia l’immagine della lotta ispirata dalla religione. Il dogma è il problema, perché Dio è in ognuno di noi ed è ciò che immaginiamo, non può essere un dogma esterno. Dio non ha bisogno di attaccare, né di qualcuno che lo difenda. Se veramente alla fine mi ritroverò davanti a un giudice, gli dirò: Dio è veramente così debole che ha bisogno di te per proteggersi da me? E tu sei Dio per giudicarmi? Il punto è che in Algeria oggi Dio è usato contro chi vuole cambiare le cose, contro chi si oppone al regime, e sono soprattutto i giovani».

La famiglia lo sostiene compatta, anche se Anouar si rende conto che la sua situazione adesso grava anche sui suoi genitori. Tutti sanno cosa scrive, anche perché non nasconde niente e non si nasconde. Ha preso il suo ruolo pubblico molto sul serio e con una maturità non comune per i suoi venticinque anni.

È convinto che l’Algeria sia ancora, nel profondo, un Paese libero e anticonformista. Che ha sempre accettato senza problemi l’ateismo, l’omosessualità, le altre confessioni, le diverse idee politiche. Ci sono stati partiti liberali, atei, comunisti, laici, difensori dei diritti delle donne. Il Raï, la musica tipica algerina che negli ultimi vent’anni si è diffusa anche a livello internazionale, parla di tutte queste cose e spesso verte su storie di amori omosessuali.

«Gli attacchi alla libertà personale sono una novità in Algeria. Se ci fosse la volontà politica di scrollarsi di dosso la sudditanza alla religione, tutti la sosterrebbero subito. Gli algerini veri sono allergici all’oppressione e per me la lotta di principio è la difesa delle scelte di ognuno, che si tratti di libertà di culto o di omosessualità, opinioni politiche o dialetto utilizzato».

Negli altri Paesi arabi, chi si è trovato in contrasto con il potere o con le autorità spesso ha scelto di andarsene. «Io non sono egoista, io resto perché ho già fatto troppo per tornare indietro o per lasciare qualcosa di incompiuto. C’è chi mi segue e ha fiducia in me. Se me ne andrò, non sarà per quello che ho scritto».

I primi due romanzi sono in corso di traduzione in Francia e non nasconde che gli piacerebbe venissero tradotti anche in Italia. E da poco ha terminato di scrivere il suo terzo romanzo: «Parla di un mondo in cui la religione è utilizzata dal potere politico, in cui il dio supremo è un coccodrillo che per placare il suo appetito vuole offerte di carne umana. Una distopia simile a 1984».

 

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