C’è di che lagnarsi in quest’Italia d’inizio millennio, certo. Lo si fa ogni giorno, pur consapevoli che gli sforzi maggiori dovrebbero essere destinati alla ricerca di soluzioni più che a sottolineare le diagnosi. Dell’Italia nel mondo si parla ormai poco e male. Di noi stessi invece parliamo forse troppo, e spesso occupandoci di fatti assai poco rilevanti. Poi all’improvvisol'Italia è sulle prime pagine internazionali e resta a lungo sulle home page dei principali siti di informazione. Accade per una grande tragedia, una fra le tante registrate nel corso dei decenni. Le vittime sono moltissime, un numero che deve restare inaccettabile e non può nemmeno in parte essere considerato come il tragico esito di un fato implacabile. Ma a distanza di un secolo dal terribile terremoto che colpì Messina all’inizio del Novecento, resta purtroppo sottotraccia (a volte anzi in primissimo piano) proprio la lettura della tragica fatalità. L’evento naturale e imprevedibile di fronte al quale l’uomo non può fare nulla.
Con la tragedia escono le forze migliori rimaste a lungo sopite sotto la quotidianità e la sua banalità più normale. Ma un Paese che si dica moderno non può accontentarsi della grande ondata di umanità solidale che anche questa volta, come sempre è stato, si è avviata dopo il dramma. Le storie su cui comprensibilmente si concentrano i cronisti (il pompiere di Bergamo stroncato dalla fatica a soli cinquant’anni, il rugbista che porta in salvo una coppia di anziani a rischio della propria incolumità, i tantissimi volontari giunti da ogni parte, il personale medico e paramedico, le forze dell’ordine) non possono neppure per un istante fare dimenticare tutto ciò che poteva essere fatto per salvare qualche vita.
A che cosa serve la tecnica se non a questo, viene da chiedersi. Mentre scorrono le immagini terribili dei centri divelti dal sisma, dove qua e là si intravvedono automobili progettate per garantire la massima sicurezza distrutte sotto il peso delle macerie, viene da chiedersi se sia possibile accontentarsi della straordinaria forza messa in campo da questo Paese “dopo”. Plaudendo, per una volta e per un tempo limitato, alla ritrovata unità nazionale, alla sconfitta delle logiche di fazione, alle lungaggini burocratiche accantonate per far fronte all’emergenza. Ovviamente tutto ciò è bene, ma non potrà servire a salvare neppure una vita tra quelle che potrebbero andare perse nel prossimo disastro “naturale”, che si spera di non dovere mai registrare. Se invece si vorrà essere nelle condizioni di limitare il più possibile i danni, serviranno grandi investimenti, magari anche un’unità nazionale che non abbia scadenza e soprattutto una visione complessiva e il più possibile partecipata del bene comune. Servirà, in una parola, un progetto. Quel progetto che non c’è e purtroppo non si intravvede, ma in assenza del quale l’Italia continuerà a illudersi di poter fare, alla buon’ora, il salto definitivo nella modernità semplicemente accontentandosi di grandi e ambiziose opere isolate e svincolate da un piano complessivo. Non è la "grande crisi" che muove la politica degli interventi una tantum a smuovere il Paese dalle sabbie mobili in cui si trova. È la scelta di una politica diversa. L’unico modo per evitare di ritrovarsi nella situazione odierna, a commentare le condizioni del nuovo ospedale dell’Aquila: inaugurato neppure dieci anni fa e ora inagibile. Già 48 ore dopo il sisma, è emerso che il San Salvatore è stato al centro delle indagini di una Commissione parlamentare. Dagli atti, risulta che per l'ospedale, i cui lavori iniziarono nel 1972 e furono conclusi nel 1999, è stata spesa una somma complessiva pari a nove volte la cifra stimata come "lecita" dalla Guardia di Finanza.
Oggi, quell'ospedale, con i suoi pilastri "anti-sismici" sgretolati, non può ospitare chi invece, più che mai, avrebbe bisogno di cure. Quella dei letti d'ospedale all'aperto, con medici e infermieri che tentano di svolgere comunque il loro lavoro, è l'immagine di un Paese in affanno, dove in tanti, nonostante tutto, cercano di fare del loro meglio. In attesa che una modernità meno imperfetta si realizzi davvero.
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