Pur essendo le motivazioni economiche determinanti al loro scatenamento, gli eventi di Tunisia ed Egitto sono ben più di una rivolta del pane. E pur essendo ragione non meno importante del malcontento popolare l’esasperazione per governi polizieschi, inefficienti e corrotti, sotto una patina di democrazia formale, gli stessi eventi sono meno di una rivoluzione destinata a sovvertire lo Stato. Forse solo l’esito e un consuntivo ex-post (visto che l’analisi ex-ante è del tutto mancata) ci consentiranno una precisa definizione: per ora diciamo che essi appaiono come un moto di empowerment, di rivendicazione di potere civile e di cambiamento dell’ordine politico, più che istituzionale, esistente. Come in tutte le rivolte e le rivoluzioni, anche in questo caso si otterranno risultati parziali. Paradossalmente i militari sembrano essere stati a un tempo la condizione perché l’insurrezione non sfociasse in un bagno di sangue, e in un suo probabile e conseguente fallimento o tragica involuzione, e il limite del suo successo appunto “civile”.
Di tutto ciò abbiamo ampia casistica di precedenti storici e la stampa nazionale e internazionale ci ha fornito una ricca messe di richiami. Quella che tuttavia è apparsa insufficiente è la percezione del nuovo rispetto al passato, che si riscontra nel rapido mutamento della natura e del funzionamento della società civile. È proprio questa insufficiente percezione, che va alquanto indietro nel tempo, a spiegare perché quasi tutti sono stati colti di sorpresa dagli avvenimenti, che si trattasse dei governi con i loro servizi segreti (persino il Mossad?, si è chiesto qualcuno) o dei politologi e degli analisti di mercato. Mentre l’attenzione era focalizzata su partiti politici e movimenti islamici, la società si è mossa quasi del tutto autonomamente da essi.
Fra i molti fattori rilevanti del cambiamento, due appaiono principali: la rete delle comunicazioni e la struttura della famiglia. Twitter, Facebook e i telefonini, per comunicare, fotografare e trasmettere dovunque, sono stati strumenti dominanti della mobilitazione e della presenza dei moti nelle case e sui media mondiali. Non a caso i tentativi di coprifuoco tradizionale sono del tutto falliti, mentre i coprifuoco elettronici hanno creato ostacoli al movimento, anche se non decisivi. Molti reportages e commenti poi hanno messo in rilievo la giovane età delle popolazioni e soprattutto della quota di essa che è disoccupata: orbene, sono proprio i giovani a essere più coinvolti nella globalizzazione della rete. Inoltre, il loro numero è sì dovuto ai più alti tassi di fertilità, ma del passato, ché quelli presenti sono in rapidissimo declino, con le conseguenze che ne derivano per la metamorfosi della famiglia e del ruolo delle donne. Significativa la presenza di queste ultime, che avevamo già visto evidentissima nelle rivolte post-elettorali in Iran e che si è potuta apprezzare nelle giornate tunisine e un po’ meno (ma sempre oltre il doppio rispetto al passato) in quelle egiziane.
È alla luce di queste trasformazioni in atto che vanno anche misurati “il rischio islamico e l’effetto domino”, due metri dominanti nelle preoccupazioni occidentali durante la crisi nordafricana. Ci dice Olivier Roy, illustre islamista dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze: “L’analisi di europei, americani e israeliani sul Medio Oriente è indietro di almeno vent’anni, non avendo preso minimamente in conto l’arrivo della nuova generazione”. E ancora: “Nelle strade del Cairo non si sentono invocazioni alla guerra santa”; e “I terroristi sono un’infima minoranza”. A queste valutazioni, sia detto per completezza, si oppongono quelle che sulla stessa pagina del "Corriere della Sera" (2 febbraio) faceva Bernard-Henri Lévy, il ben noto intellettuale francese, che stigmatizza instancabilmente la minaccia terroristica islamica e che tuttavia ha guidato la copertura culturale internazionale al terrorista nostrano Cesare Battisti.
Il ritardo nell’analisi dei governi occidentali si è tradotto nell’imbarazzo vistoso delle loro reazioni alle notizie che man mano venivano da Tunisi e dal Cairo. L’impegno ora, a Washington e a seguire nelle capitali europee, è volto a recuperare. Obama, muovendo dal piccolo ma non trascurabile punto di appoggio del suo discorso agli studenti egiziani oltre un anno fa, e forte dell’aiuto economico e militare americano all’Egitto, cerca di gestire una transizione che potrebbe rivelarsi la più significativa prova di politica estera per la sua rielezione nel 2012. L’Unione europea la sua prova sembra già averla fallita. Nelle premesse, innanzitutto: l’Unione mediterranea, che Sarkozy aveva imposto scavalcando la Commissione e che lui stesso co-presiedeva proprio con Mubarak, è stato un completo fallimento. E poi nel test della nuova struttura post-Lisbona: Lady Ashton è apparsa manifestamente al di sotto del suo ruolo, schiacciata fra l’assenza storica di una politica mediterranea dell’Ue, appunto, e la consueta cacofonia delle posizioni dei governi. Fra le quali, sia detto per concludere non in bellezza, è spiccata quella del governo italiano, apparso all’inizio il più allineato alle miopi (ma comprensibili) resistenze di Netaniau e il più lento a sciogliersi dall’abbraccio con il “faraone” del Cairo in decadenza, con la motivazione del doppio rischio terroristico e immigratorio, apparsa pretestuosa ai più. Al di là di satire e vignette a proposito di tale abbraccio, legate alla recente cronaca italiana, questa scelta di politica estera potrebbe essere gravida di conseguenze nei nostri rapporti con una Repubblica egiziana rinnovata.
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