Il taglio ai finanziamenti dell’università che ha generato lo scontro tra la ministra Bernini e la Conferenza dei rettori costituisce solo l’ultimo (in ordine di tempo) tema caldo sul tavolo dell’agenda politica universitaria. All’inizio di giugno il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge-delega che affida al governo il compito di riordinare e razionalizzare quasi ogni aspetto della vita universitaria: dalla cosiddetta governance al reclutamento dei professori e ricercatori, dall’internazionalizzazione allo stato giuridico ed economico dei docenti, dalla didattica al diritto allo studio. Poche settimane fa la ministra ha nominato un piccolo gruppo di lavoro, presieduto da Ernesto Galli della Loggia, per
“l’analisi di adeguati interventi di revisione dell’ordinamento della formazione superiore, al fine di incrementare il livello di efficienza della governance istituzionale, delle logiche di reclutamento e di gestione del personale docente nonché di razionalizzare l’offerta formativa”.
Che la macchina universitaria, a distanza di quattordici anni dalla grande riforma del 2010, abbia bisogno di qualche intervento di manutenzione è fuori discussione. Come ogni manutenzione, infatti, anche quella dell’università serve a prevenire i malfunzionamenti dovuti all’usura del tempo, a preservare l’integrità della macchina e a garantire che essa continui a operare adeguatamente. Tuttavia, sarebbe poco utile – e forse persino dannoso – mettere mano a un riordino della disciplina senza prima aver chiarito la direzione verso cui si vuole andare.
Prima di entrare nel dettaglio delle regole – e anche della loro formulazione, questione che non è mai secondaria – occorrerebbe aprire una discussione, ampia e partecipata, sui principi e sui valori in gioco, alla ricerca del maggiore consenso possibile su quelli che dovrebbero ispirare il riordino e la razionalizzazione della disciplina vigente. L’università, infatti, non dovrebbe essere terreno di strumentalizzazioni e di scontro tra i partiti di maggioranza e di opposizione, né tra liberisti e statalisti, o tra accademia e politica. Punti di vista diversi, ovviamente, sono inevitabili e in una certa misura anche utili a evitare visioni unilaterali. Ma bisogna partire dalla condivisione che l’università, pur con i suoi limiti, costituisce ancora uno straordinario patrimonio del Paese e come tale dovrebbe essere considerata, anzitutto dal governo.
L’università non dovrebbe essere terreno di strumentalizzazioni e di scontro tra i partiti di maggioranza e di opposizione, né tra liberisti e statalisti, o tra accademia e politica
Quali principi e valori, dunque, dovrebbero ispirare gli interventi di manutenzione? Senza alcuna pretesa di esaustività, ne indichiamo qui tre che ci sembrano davvero necessari per qualsiasi politica autenticamente riformista.
Il primo valore è l’autonomia. In che cosa esattamente consista l’autonomia universitaria di cui parla la Costituzione quando afferma all’articolo 33 che “le università hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi” è questione sulla quale gli studiosi si sono a lungo affannati. Marco Cammelli ha scritto che in Italia si sono fronteggiati storicamente due modelli di autonomia universitaria: un modello forte, sostenuto soprattutto dalla dottrina, in base al quale le università sono istituzioni distinte dallo Stato e l’autonomia, proprio in quanto tale, non ha bisogno di una legge che ne stabilisca i limiti; un modello debole, realizzato in concreto anche grazie alla Corte costituzionale, in cui le università godono di uno spazio di autonomia accordato dallo Stato in misura più o meno ampia e in cui la legge è necessaria per conformare l’autonomia. In questo secondo modello il campo occupato dalla legge non solo è decisamente più esteso rispetto al primo, ma più ampio è anche lo spazio occupato dalle fonti secondarie (regolamenti, decreti ministeriali ecc.).
In entrambi i modelli, comunque, l’autonomia riconosciuta alle università è funzionale ad assicurare la libertà di insegnamento e di ricerca previste sempre dall’articolo 33 della Costituzione. L’autonomia, cioè, è stabilita dalla Costituzione per garantire che le università siano uno spazio di ricerca e di insegnamento libero dalle influenze di poteri esterni, anzitutto quello politico-governativo, ma anche quello privato.
Dopo la riforma Gelmini, però, le cose sono molto cambiate. Non soltanto l’autonomia è stata fortemente compressa, ma il fine stesso dell’autonomia è stato capovolto: essa non è più funzionale a garantire la libertà della ricerca e dell’insegnamento da poteri esterni, pubblici e privati, ma a far sì che le università siano dotate di un assetto organizzativo (governance) capace di meglio rispondere alle istanze che provengono dall’esterno (non a caso da alcuni anni si parla di stakeholder: Stato, famiglie, mercato, società).
Dunque, il primo valore che dovrebbe orientare il riordino del sistema è proprio l’autonomia delle università, da intendersi finalmente nel suo senso forte, come spazio effettivo di autoregolamentazione. Ciò permette di ricondurre l’autonomia al suo fine originario, che è garantire la libertà, e presuppone definire a monte quali regole debbano essere uguali per tutti e quali invece possano e debbano essere lasciate all’auto-ordinamento dei singoli atenei.
Il secondo valore, strettamente connesso all’autonomia, è la semplificazione. Anche se si tratta di parola abusata e spesso ridotta a slogan, la semplificazione costituisce una vera necessità, come sa bene chiunque lavori in università. Qui le complicazioni nascono anzitutto dal fatto che la legislazione è sempre stata abbondante e stratificata nel tempo. Il problema negli anni più recenti si è acuito. Da una parte, la riforma del 2010 ha provocato un’alluvione di decreti attuativi e, conseguentemente, un eccesso di norme. Dall’altra parte, le università sono state assimilate dal legislatore alle altre amministrazioni e come tali sono destinatarie anche delle tante discipline generali applicabili a queste ultime.
A questa situazione, già di per sé non desiderabile, si è aggiunta una vera e propria iper regolazione, vuoi mediante una produzione alluvionale di decreti ministeriali, linee guida, atti dell’Anvur variamente denominati, vuoi per effetto dell’emanazione di una copiosa normativa interna (statuti e regolamenti) da parte degli atenei. Il risultato è una giungla di norme, spesso non coordinate tra loro, che hanno soprattutto l’effetto di irrigidire l’organizzazione e rallentare l’azione delle università.
È una giungla di norme, spesso non coordinate tra loro, che hanno soprattutto l’effetto di irrigidire l’organizzazione e rallentare l’azione delle università
La complicazione normativa, peraltro, è accompagnata anche dalla complicazione amministrativa. Sotto questo profilo si è assistito negli ultimi anni a una vera e propria ossessione burocratica, soprattutto per effetto – certamente non voluto – dell’azione dell’Anvur. Procedure come la Vqr (Valutazione della qualità della ricerca) e ancor più Ava (Autovalutazione, valutazione, accreditamento), pur avendo stimolato lo sviluppo di una maggiore responsabilità da parte degli atenei nella definizione delle proprie politiche e nella gestione delle proprie risorse, hanno finito spesso per assorbire tempo ed energie sproporzionate rispetto alla loro effettiva utilità.
Il terzo valore è la cooperazione. Negli ultimi anni sono stati introdotti meccanismi di competizione regolata tra gli atenei per l’acquisizione delle risorse statali (anzitutto la cosiddetta quota premiale del Fondo di finanziamento ordinario) e degli studenti migliori. Attualmente, complici anche la contrazione delle risorse pubbliche e la crescita esponenziale delle università telematiche, potrebbe essere forte la tentazione verso una più decisa apertura al mercato, coerentemente con una visione dell’università come bene privato. Tuttavia, le controindicazioni di uno scenario di questo tipo sarebbero molte, a cominciare da quella per cui affidarsi al mercato, di per sé, non assicura affatto che venga soddisfatto l’interesse pubblico, anzitutto quello a una adeguata qualità dell’istruzione superiore.
Lo scenario può essere diverso se si introducono meccanismi di cooperazione invece che di competizione. È un dato di fatto che il sistema universitario italiano sia caratterizzato, storicamente, dalla frammentazione, ossia dalla presenza su tutto il territorio nazionale di un certo numero di università (oggi circa un centinaio, un terzo delle quali non statali). A parte il fatto che tali numeri andrebbero paragonati a quelli di altri Paesi prendendo in considerazione tutte le istituzioni di istruzione superiore (quindi non solo le università), vi sono studi che dimostrano come, pur non essendoci atenei italiani nei primi posti delle classifiche internazionali, la qualità media del sistema universitario nazionale è elevata. Ciò significa che la qualità scientifica è diffusa – o, se si vuole, è dispersa – e non concentrata in poche università. Prendendo atto di questo dato, occorrerebbe allora incentivare lo sviluppo di politiche collaborative tra gli atenei, anzitutto nella costruzione di reti di ricerca, sul modello di quanto avvenuto con alcuni progetti finanziati dal Pnrr, al fine di favorire la creazione di quella massa critica indispensabile in determinati settori strategici e la circolazione dei ricercatori e degli studenti tra i diversi atenei.
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