Il progetto leghista-pentastellato di un “governo del cambiamento” ha rischiato di deragliare a causa dei temi macroeconomici e dello scontro istituzionale emerso a partire dalle idee sul rapporto tra Italia ed Europa. Questioni decisive innanzitutto per le conseguenze che alcune scelte politiche hanno, o ci si aspetta abbiano, in concreto sulla vita delle persone, a partire dal poter contare per i propri progetti su risorse economiche certe e su una moneta stabile.

Difficile capire quale sia la reale visione su questi temi delle due forze politiche che hanno vinto le elezioni del 4 marzo. Tuttavia, qualche indicazione può venire dal “contratto per il governo di cambiamento”, che entrambi i partiti e il presidente del consiglio Conte prendono come loro riferimento per l'azione di governo. Va subito detto che il documento elenca in ordine alfabetico proposte tratte dai programmi elettorali di due partiti molto distanti tra loro, senza pervenire a una sintesi con un ordine di priorità nel merito e nella tempistica. È allora possibile, nonostante ciò, individuare una visione del sistema economico italiano nel mondo su cui fondare quell’“assetto compatto [del governo italiano] rispetto alle istituzioni e ai partner europei” richiamato sin dall’inizio del contratto?

Limitandosi al contesto macroeconomico, necessariamente connesso alle posizioni riguardo all’Unione monetaria, due indizi rivelatori sono le valutazioni sull’economia di mercato e i riferimenti a come dovrebbe operare la Banca centrale europea.

Primo indizio. La critica verso un “sistema sociale improntato sull’utilitarismo e sul profitto” e l’auspicio per il ritorno “all’impostazione delle origini in cui gli Stati europei erano mossi da un genuino intento di pace, fratellanza, cooperazione e solidarietà [per cui] si ritiene necessario rivedere, insieme ai partner europei, l’impianto della governance economica europea […] basato sul predominio del mercato rispetto alla più vasta dimensione economica e sociale” funzionano da sostrato per tutta una serie di proposte che vedono protagonista lo Stato, inteso sempre come debitore o garante per definizione non rischioso per i finanziatori. Inoltre, la strategia di politica economica per favorire la crescita del Pil si basa su “un rilancio sia della domanda interna dal lato degli investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostegno del potere di acquisto delle famiglie, sia della domanda estera, creando condizioni favorevoli alle esportazioni”.

Queste posizioni di principio individuano un atteggiamento nostalgico verso un’età dell’oro collocata in un passato indeterminato (prima dell’unificazione tedesca e di Maastricht ma già con il mercato unico europeo e le sue regole? Prima degli accordi di cambio nell’allora Comunità europea dopo la fine di Bretton Woods nel 1971?), con una rimozione dei mutamenti epocali intervenuti nel panorama geopolitico ed economico mondiale prima ancora che europeo. Siccome però, nell’attività di governo, non è possibile prescindere dai dati di realtà, si pone un problema di sequenza temporale tra le misure di politica economica realizzabili in tempi brevi e quelle da rimandare, perché condizionate dagli esiti di negoziazioni con i partner europei.

La logica del moltiplicatore keynesiano si scontra con una serie di fattori di incertezza, tutti legati alla mancata individuazione delle coperture di programmi di spesa o di riduzione fiscale, che tendono a spingere a scelte di risparmio precauzionale chi ha un reddito sufficiente per farlo. Il primo fattore è l’incertezza sul se e quando si materializzerà l’annunciata erogazione di reddito e pensione di cittadinanza alle fasce di popolazione con maggiore propensione al consumo. L’effetto espansivo che ne deriverebbe sarebbe peraltro contrastato dall’effetto di minore liquidità derivante dal pagamento di una parte delle imposte dovute per beneficiare della “pace fiscale” (leggasi condono) associata all’introduzione del regime di flat tax. Ciò perché il condono interesserà tutte le fasce di popolazione, mentre i benefici di minori imposte saranno soprattutto per i più abbienti, con minore propensione al consumo. Un secondo fattore di incertezza deriva dal fatto che sono le esportazioni al netto delle importazioni ad avere un effetto espansivo sul Pil.

Nel documento è tuttavia assente il tema di come rendere più conveniente acquistare produzione italiana rispetto a quella estera, coerentemente con l’aver sposato una logica di domanda prescindendo quasi completamente dalle condizioni dell’offerta. Omesso il tema cruciale della produttività, stagnante da quasi un quarto di secolo, di fatto l’offerta dovrebbe trarre beneficio prevalentemente dalla flat tax, il che rimanda alle suggestioni dello “scatto” delle partite Iva con il “meno tasse per tutti” del 1994. Un terzo fattore di incertezza è che la tempistica per misure di espansione della domanda aggregata si scontra con l’evoluzione probabile del ciclo internazionale, sia per la minore dinamica degli scambi, e quindi per le peggiori prospettive delle esportazioni nette, sia per l’aumento dei tassi d’interesse, accentuato per l’Italia dal venir meno degli acquisti di titoli pubblici della Bce.

Secondo indizio. È proprio all’istituzione guidata fino al 2019 da Mario Draghi, cui succederà con ogni probabilità il tedesco Weidmann, che il nuovo governo chiederebbe di “estendere lo Statuto vigente delle principali banche centrali del mondo per raggiungere un’unione monetaria adeguata agli squilibri geopolitici [?] ed economici prevalenti e coerente con gli obiettivi dell’unione economica”. Le altre principali banche centrali sono la Federal Reserve americana e le banche centrali del Giappone e del Regno Unito. Solo la prima ha avuto dal Congresso nel 1977 il doppio mandato di perseguire gli obiettivi della massima occupazione sostenibile e della stabilità dei prezzi. È noto tuttavia come il governatore Volcker, già qualche anno dopo, a cavallo tra le presidenze Carter e Reagan, abbia privilegiato tra i due l’obiettivo del contrasto all’inflazione, con un rialzo deciso dei tassi d’interesse. A partire da questo caso di successo la storia recente della stessa Fed e delle altre banche centrali indipendenti mostra una consonanza elevata nel perseguire come obiettivo primario il controllo dell’inflazione, adottando politiche monetarie e modi di comunicazione ai mercati molto simili. Non si vede quindi in cosa sia manchevole lo statuto della Bce circa il mandato sulla politica monetaria. Come imitare esempi esteri di Stati con una propria politica fiscale (e non un’unione monetaria con diversi ministri dell’Economia) se non favorendo un’accresciuta cessione di sovranità nazionale a favore dell’Unione? Una posizione, questa, che sarebbe però in contrasto con i ripetuti richiami a modifiche dei Trattati, fino alla proposta di sovraordinare la Costituzione italiana rispetto all’ordinamento comunitario, in un’ottica “sovranista”, e all’evocazione di un ritorno a un assetto almeno pre-Maastricht.

In conclusione, rimane difficile individuare su cosa potrà fondarsi l’assetto compatto del progettato governo e degli organismi che rappresentano l’Italia ai tavoli negoziali con i partner europei. Un nuovo governo, espressione di un chiaro mandato popolare a un cambiamento, deve prestare attenzione a che questo non sia inteso prevalentemente come soluzione di continuità con il passato, compreso l’evadere gli impegni assunti liberamente con i partner europei dai governi predecessori. Nelle more della realizzazione di un cambiamento non meditato adeguatamente, i danni da un eccesso di incertezza sui tempi e sulla congruità delle misure auspicate possono infatti superare i benefici sperati.

 

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