Nelle intenzioni del governo italiano, o almeno in quelle del ministro dell’Interno e del presidente del Consiglio, il summit del Consiglio europeo svoltosi pochi giorni fa a Bruxelles avrebbe dovuto avviare un processo di revisione della Convenzione di Dublino e del sistema complessivo di gestione del diritto d’asilo in Europa. Questo trattato risale al 1997 (il regolamento di Dublino che lo sostituisce e integra è del 2003, e una sua successiva versione è del 2013) e stabilisce che il primo Paese in cui un richiedente asilo approda debba farsi carico della gestione dell’iter successivo, cioè della valutazione della richiesta, dell’ospitalità del richiedente durante il tempo necessario a valutare la sua domanda, dell’eventuale accoglimento temporaneo o respingimento. Come ormai è chiaro, l’obiettivo non è stato ottenuto. L’onere di accogliere i richiedenti asilo, e soprattutto di distinguere i migranti economici da chi potrebbe avere diritto allo status di rifugiato, rimane ai Paesi di frontiera, o comunque a quelli in cui i richiedenti asilo approdano.
Ci sono molte ragioni per cambiare questo modo di procedere. Per alcuni, il sistema previsto dal regolamento di Dublino danneggia i potenziali rifugiati, perché non tiene conto della loro volontà e li consegna a Paesi che non sempre garantiscono una gestione equa o efficiente, e crea separazioni di famiglie, incentiva l’uso di centri di raccolta e smistamento che sono veri e propri campi di prigionia, e così via. Ma il problema principale, per gran parte dell’opinione pubblica, è che così facendo gli oneri dell’accoglienza sono diseguali, giacché i Paesi di frontiera, e soprattutto quelli del Sud dell’Europa, hanno un carico maggiore degli altri.
C’è tuttavia un problema logico in questa critica. Il regolamento e il trattato di Dublino rispondono al diritto internazionale vigente che regola il trattamento dei rifugiati. A partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951, il diritto internazionale ha stabilito due principi. Innanzitutto, la distinzione fra migranti e rifugiati, che dà ai rifugiati il diritto di essere accolti in quanto perseguitati per ragioni specifiche – per la loro fede, le loro opinioni politiche, la loro appartenenza etnica o sociale. In secondo luogo, il cosiddetto diritto di non-refoulement, cioè il diritto a non venire rispediti nel Paese da cui si fugge, o in un altro posto non sicuro. Si noti che questo non corrisponde al diritto di ricollocazione, cioè al diritto di stabilirsi permanentemente o temporaneamente in un certo Paese. La ricollocazione spetta ai richiedenti asilo il cui status sia riconosciuto dopo l’iter che la legge prevede. Il diritto di non respingimento spetta a chiunque, semplicemente, aspiri allo status di rifugiato, e funziona come misura cautelativa preliminare. Quindi, alla luce del diritto internazionale, si possono respingere solo coloro che sono sicuramente migranti economici, cioè per i quali non si ponga neanche il dubbio che rispedirli nel Paese di provenienza o in un altro Paese possa costituire pericolo.
È evidente che questi due principi – distinzione migranti/rifugiati e diritto di non-refoulement – possono essere in parziale contraddizione, o almeno possono porre problemi di difficile risoluzione. Nel diritto internazionale la separazione fra rifugiati e migranti sembra essere netta. Però il diritto di non-refoulment richiede di interpretare in maniera molto ampia la categoria di rifugiato – giacché anche prima di essere sicuri di avere di fronte un rifugiato bisogna garantire al mero richiedente asilo una protezione che a rigore al migrante economico non spetterebbe. Con una impostazione del genere, non ci si può stupire del fatto che molti migranti economici cerchino di presentarsi come richiedenti asilo. E questo non mostra la loro malafede, peraltro, dal momento che per molti migranti economici il ritorno in patria è una prospettiva pericolosa – una prospettiva di miseria e fallimento –, per quanto non si tratti dei pericoli previsti dalla Convenzione di Ginevra. Ma perché esseri umani in condizioni precarie dovrebbero distinguere fra i pericoli che corrono?
Ma la cosa interessante sarebbe chiedersi quale sia la base morale del diritto di non-refoulement. La risposta più ovvia è questa: se una persona in pericolo (per esempio inseguita da un assassino) bussa alla mia porta e io mi rifiuto di accoglierlo o lo rispedisco da dove viene, divento complice di chi lo sta mettendo in pericolo (dell’assassino, dunque). Inizialmente, non ero responsabile del pericolo in cui si è venuto a trovare chi mi chiede aiuto. Ma se nego l’aiuto divento (almeno in parte) responsabile del fatto che costui si continui a trovare in pericolo. Lo stesso vale per i governi. Se un governo respinge dalle sue coste un potenziale rifugiato, magari rispedendolo al Paese da cui scappa, questo governo diventa complice del regime persecutore. E la complicità aumenta se, magari, il governo in questione aiuta un regime ingiusto a bloccare i profughi, o contribuisce a costruire, nel territorio controllato dal regime persecutore, dei campi di raccolta dei profughi. Molti si preoccupano della complicità con i mercanti che lucrano sui viaggi di migranti e profughi – la complicità nostra e delle Ong. Ma bisognerebbe tenere conto anche di queste altre forme di complicità, non meno evidenti e biasimevoli.
Il diritto di non-refoulement, dunque, deriva dall’idea che respingere la richiesta d’aiuto di qualcuno in pericolo significa diventare complici di chi lo mette in pericolo. In altri termini, nel momento in cui qualcuno ci chiede aiuto, diventiamo in parte responsabili della sua sorte. Questo modo di vedere rende salienti le posizioni di chi chiede aiuto e chi lo offre. Non siamo responsabili di chiunque si trovi in pericolo. O meglio, possiamo fare differenza fra la responsabilità di chi mette in pericolo – la responsabilità di un regime ingiusto che perseguiti i propri cittadini – e la responsabilità e i doveri di chi assiste. È ovvio che chi assiste a un assassinio non è colpevole come chi lo perpetra. È ovvio, pure, che non ci può essere richiesto di stare sempre all’erta per impedire tutti gli assassinii che si potrebbero stare perpetrando – magari a nostra insaputa e lontano da noi. Una cosa è il dovere negativo di non uccidere, un’altra è il dovere positivo di aiutare chi rischia di venire ucciso. Il secondo è meno stringente del primo. Quindi, il dovere di aiutarli a casa loro, secondo uno slogan ormai abusatissimo, è meno stringente del dovere di aiutarli una volta che siano a casa nostra. Quindi, non possiamo non aiutarli a casa nostra con la scusa che andremo ad aiutarli a casa loro.
Una volta che il fuggiasco sia alla nostra porta, una volta che i profughi siano approdati sulle nostre coste, la situazione cambia, rispetto a quando erano in mare o erano ancora in patria. Adesso abbiamo il potere di salvarli – e questo potere ce l’abbiamo noi, non altri. Diventiamo responsabili della loro sorte, perché possiamo evitare loro una sorte peggiore.
Questo tipo di responsabilità non è generale o universale. È di chi si trova in una certa situazione. È lo stesso tipo di responsabilità di chi si trovi a soccorrere qualcuno. Il dovere di soccorrere non è in capo a chiunque. È in capo a chi si trovi nella possibilità di soccorrere. Non è che ognuno di noi debba prestare soccorso alle vittime di incidenti stradali – pure quando sta tranquillo a casa propria, e non assiste a nessun incidente. Deve prestare soccorso chiunque di noi si trovi ad assistere all’incidente.
Il trattato di Dublino applica questa logica. Il dovere di soccorso spetta agli Stati che possono esercitarlo immediatamente perché hanno giurisdizione sulla frontiera presso la quale i profughi arrivano. Dire che questo dovere si dovrebbe dividere equamente fra tutti gli Stati europei sarebbe come se, di fronte all’ennesimo incidente stradale cui mi trovo ad assistere, rifiutassi di portare le vittime all’ospedale, dicendo che il prezzo della benzina e il tempo deve venire suddiviso equamente con tutti gli altri automobilisti, anche con chi non passa di lì, perché io ne ho abbastanza di salvare automobilisti incompetenti. E se, sulla scorta di queste considerazioni, lasciassi sul ciglio della strada la vittima dell’incidente, la mia sarebbe omissione di soccorso – un misfatto giuridico e morale. Chiudere i porti somiglia molto a questo tipo di comportamento.
Tutto questo non vuol dire che il regolamento di Dublino sia perfetto o intoccabile. Vuol dire solo che la sua logica non è peregrina, ma deriva dall’idea che i richiedenti asilo abbiano dei diritti specifici e che il soccorso a chi è in pericolo non si possa negare – principi sanciti dal diritto internazionale vigente. Chi vuole abbandonare questa logica, in realtà, vuole abolire la categoria dei richiedenti asilo e vuole un mondo in cui, di fronte alla vittima di un incidente o a chi fugge da un assassino, ci giriamo dall’altra parte. Questo obiettivo non ha nulla a che vedere né con l’equità né con la solidarietà fra gli Stati europei.
:: per ricevere tutti gli aggiornamenti settimanali della rivista il Mulino è sufficiente iscriversi alla newsletter :: QUI
Riproduzione riservata