Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Nell'aggressione militare russa contro l'Ucraina si manifesta e al contempo entra in crisi definitiva un'idea imperiale-nazionale ottocentesca che – “messa in soffitta” per tutto il Novecento dall'esperimento sovietico – viene oggi riattualizzata in modo anacronistico da un regime politico incapace di trovare alcun altro collante identitario: tra i fattori che hanno orientato le recenti, sciagurate scelte del Cremlino, ve ne sono infatti alcuni di lungo periodo, inerenti alle direttrici complessive lungo cui si è andata costruendo l'identità nazionale russa.
Compagini statali periferiche, condizionate da strutture socio-economiche arretrate, la Moscovia prima e l'Impero russo poi alternano lunghi periodi di sviluppo lento e stentato, crisi improvvise e traumatici conati di modernizzazione forzata, nel tentativo di adeguarsi agli standard occidentali istituti, civili e politici, affetti da un endemico primitivismo: ne deriva una linea evolutiva squilibrata e discontinua, in cui elementi mutuati dall'Occidente si saldano a strutture profonde estranee al loro contesto di origine.
La rivolta decabrista del 1825, maturata nel clima di fervore patriottico che segue alle guerre napoleoniche, rappresenta un estremo e radicale tentativo di adeguare la Russia agli standard civili dell'Europa occidentale, in un'ottica illuministica che vede nel “progresso” un cammino rettilineo dalle tenebre alla luce, secondo tappe che si ripropongono identiche a ogni popolo. Col fallimento del decabrismo, all'élite europeizzata appare chiaro come le dinamiche di sviluppo attive nel contesto russo vadano declinate in termini diversi da quelli validi in Occidente: i grandi rivolgimenti politici che hanno scandito la storia d'Europa non sono riproducibili negli stessi termini sulle rive della Neva, e l'estraneità mostrata dalle masse popolari nei confronti del tentativo messo in atto dagli eroi del 14 dicembre mostra quanto il tessuto della nazione sia lacerato in segmenti socio-culturali incomunicanti.
L'idea che un ciclo di sviluppo e di egemonia universale attenda le nazioni “giovani” è uno schema ottimistico, ideale per giustificare tanto i traumi storici subiti dalla Russia quanto la condizione di arretratezza presente
Inizia così la riflessione su quello che – prendendo a prestito un termine coniato in area germanica per descrivere fenomeni affini – possiamo definire Sonderweg, ossia il cammino peculiare di una Russia che «non ha mai avuto nulla in comune col resto d'Europa: la sua storia esige un altro modo di pensare, un'altra formula», come sentenzia Aleksandr Puškin nel 1830, di fronte a un'ennesima rivoluzione europea che rimarca ancora una volta tale estraneità. Il Sonderweg – o, puškinianamente, la “formula storica” della Russia – è a sua volta definito da un particolare spirito nazional-popolare (la narodnost', calco dal tedesco Volkstum) e dal suo rapporto col movimento universale della storia. È una questione che si può porre in infiniti modi, in genere traendo ispirazione dalle teorie di Johann Gottfried Herder riguardo alla «grande catena della civiltà e della cultura» a cui ogni nazione concorre in modo originale; da tale modello storicistico deriva inoltre l'idea che tutto un ciclo di sviluppo e di egemonia “universale” attenda le nazioni “giovani”, mentre quelle che oggi si trovano al culmine del proprio ciclo siano votate a una prossima decadenza: uno schema ottimistico, ideale per sublimare e giustificare tanto i traumi storici subiti dalla Russia quanto la condizione di arretratezza presente.
Da questo momento in poi il binomio Sonderweg e narodnost' viene a costituire il nodo cruciale dell'autocoscienza russa, e il primo discrimine non può essere che il giudizio sull'opera di Pietro il Grande: prologo necessario (per quanto corrivo e traumatico) di un'inclusione progressiva della peculiarità russa nel movimento universale della civiltà, oppure tentativo subalterno e abortito di impiantare nel Paese istituti estranei in luogo di assetti pregressi, autenticamente nazionali perché frutto di nomogenesi interna? Ha qui origine la biforcazione fra modello occidentalista e modello slavofilo: quanto è Europa la Russia, e quanto è altro dall'Europa? E cos'è questo “altro”? È un bene o è un male essere Europa? È un bene o un male essere “altro”? Visioni dell'identità nazionale, dei suoi dilemmi presenti e delle sue prospettive future che solo apparentemente si pongono in antitesi inconciliabile: esse costituiscono se mai un quadro categoriale in cui da quasi due secoli si va a posizionare chiunque, a qualsiasi titolo, voglia definire l'identità russa e/o definirsi in relazione a essa.
Quanto è Europa la Russia, e quanto è altro dall'Europa? E cos'è questo “altro”? È un bene o un male essere Europa? È un bene o un male essere “altro”?
Tali codici di autodefinizione nazionale si riverberano segnatamente nella letteratura, che in Russia ha svolto per periodi assai lunghi un ruolo sostitutivo nei confronti di un dibattito pubblico privo di istituti autonomi nei quali potersi articolare: è dunque in essa che le simbologie e le narrazioni identitarie trovano il proprio crogiuolo e il principale tramite di diffusione. Di qui anche l'estrema tensione, negli autori e nelle correnti di maggiore spessore, fra un livello problematico che in un ampio orizzonte storico cerca la soluzione a dilemmi universalmente umani, e un'urgenza affatto concreta di definire risultati e prospettive del cammino nazionale, in un'ottica ora complementare ora di contrapposizione nei confronti dell'Occidente (o meglio, a una data rappresentazione di esso). Dalla tragedia Boris Godunov alla povest' pietroburghese Il cavaliere di bronzo e al romanzo storico La figlia del capitano sulla rivolta di Emel'jan Pugačëv, il tardo Puškin tenta varie direzioni d'indagine circa la “formula storica” russa con tutta la versatilità di cui è capace, concentrandosi tanto sui processi di lungo periodo che sui momenti di crisi repentina, ma in poesie ispirate dalla rivolta polacca del 1830 (Ai calunniatori della Russia, L'anniversario di Borodino) si mostra anche deciso sostenitore delle ragioni egemoniche dell'Impero nei confronti dei propri vicini occidentali. Nikolaj Gogol' conclude il “poema” delle Anime morte con una invocazione alla Rus', vista come tabula rasa estranea al corso della civiltà occidentale, ma proprio per questo potenziale incubatrice di un nuovo e più elevato ciclo storico, così come nel romanzo Taras Bul'ba celebra l'epos “omerico” dei cosacchi ucraini (ma che proprio in quanto tali figurano come concrezione sineddotica dell'unità del popolo russo in tutte le sue diramazioni), impegnati in un totalizzante scontro di civiltà contro l'Occidente rappresentato dalla Polonia. Noto ai lettori occidentali soprattutto per il “pessimismo cosmico” del poema Il demone e del romanzo Un eroe del nostro tempo, Michail Lermontov è anche acuto precursore e cantore in versi della missione di sintesi civilizzatrice operata – o tentata – dall'Impero russo nel Vicino Oriente, nel Caucaso e in Asia centrale (La disputa, Valerik); della guerra patriottica come sintesi nazional-popolare in cui si incontrano e amalgamano ceti fino allora non comunicanti, è insuperabile evocatore il Lev Tolstoj di Guerra e pace. E per sconfinare nel Novecento, quel Michail Bulgakov che ha dato vita alla satira graffiante di Cuore di cane e alla trasognata ironia de Il maestro e Margherita è anche un acceso nazionalista grande-russo, devoto all'unità del fu Impero: il suo primo romanzo La guardia bianca narra infatti l'epopea degli ufficiali zaristi abbandonati a fronteggiare le bande di separatisti ucraini nella Kyiv del 1918.
In tale quadro, ad assumere un significato cruciale è proprio quel Fëdor Dostoevskij che (per motivi di grottesca autotutela censoria preventiva, estranei a qualsivoglia giudizio di merito) si tenta oggi di cancellare da manifestazioni culturali e accademiche. Adepto dei circoli democratici e socialisti in gioventù e per questo condannato a un dura pena, fiancheggiatore delle riforme seguite nei primi anni Sessanta alla sconfitta russa di Crimea e convertitosi poi – per reazione all'esaurirsi dell'esperimento riformista – a un nazionalismo isolazionista, a un misticismo messianico e arcaizzante e a un imperialismo panslavista che con gli anni si fanno sempre più aggressivi, Dostoevskij rappresenta più di qualunque altra figura intellettuale russa l'autobiografia ideologica della nazione, e di tale parabola identitaria esaspera all'estremo tutte le contraddizioni. Se l'antropologia religiosa sviluppata in un arco che va dalle vicissitudini di Raskol'nikov alla Leggenda sul Grande inquisitore appartiene all'umanità intera e mai cesserà di nutrirne le rappresentazioni, non si può non ricordare come l’ultimo Dostoevskij tenti di risolvere le contraddizioni della storia russa appellandosi con decisione alla guerra (nella forma della crociata anti-turca per la liberazione dei “fratelli” slavi del sud), celebrata come insostituibile veicolo di rigenerazione morale (per i singoli individui) e sociale (per la comunità nel suo complesso).
È perciò la figura del bogatyr’, l'eroe dei canti epici medievali, a costituire l’ideale integrazione polemologica alla monastica “ierocrazia” coltivata nei Fratelli Karamazov. Di qui l’abbondanza nel romanzo – così come in tutta la pubblicistica dostoevskiana del 1876-1877 – di spunti riconducibili a due campi adiacenti e spesso intercomunicanti: il tema strettamente militare e la sfera del martirio, del sacrificio per la fede, o podvig: tutta costruita sull’idea del podvig è la storia dello stesso Alëša Karamazov, la cui uscita dal chiuso e pio universo del monastero dà inizio a una crescita spirituale attraverso la lotta con un mondo esterno in preda al caos e ai più sozzi appetiti. Né al monastero mancano nemici interni pronti a seguire il richiamo del “fetore di cadavere” e – come il padre Ferapont alle esequie di Zosima – infrangere la fragile regola comunitaria. La pia armonia sociale annunciata dal pater seraphicus ha bisogno di bogatyri che combattano sulle sue frontiere perennemente sanguinanti.
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