«Generazione Erasmus» è un'espressione molto bella, evocativa. Piace ai politici europeisti, piace ai media, piace alle istituzioni dell'Ue. Incarna il sogno della libera circolazione dei cittadini attraverso i confini interni dell'Unione europea – uno dei risultati più celebrati del processo di integrazione, a sua volta direttamente collegato a una serie di altri successi dell'Ue, come l'unificazione monetaria o l'abolizione dei controlli alle frontiere e del roaming.
Ma parlare dell'esistenza di un'intera «generazione» Erasmus è fuorviante. L'esperienza della mobilità attraverso i confini in Europa riguarda una piccola minoranza di giovani: più che una generazione è un drappello, fortemente autoselezionato e assai omogeneo in termini di estrazione sociale.
Il programma Erasmus+ celebra quest'anno il suo trentacinquesimo anniversario. In questi decenni ha sostenuto gli scambi all'estero di circa 12 milioni di persone in Europa, di cui 5 milioni di studenti universitari (benché siano meno note, il programma offre opportunità di mobilità anche a docenti, tirocinanti, lavoratori, sportivi, volontari). 5 milioni sembrano e sono tanti, ma se li guardiamo da vicino costituiscono solo una piccola percentuale dei giovani europei.
Secondo Eurostat nel 2019 all'interno dell'Ue vivevano infatti oltre 50 milioni di persone tra i 20 e i 24 anni, e due terzi di loro non frequentava l'università. Tra i circa 17 milioni di studenti iscritti in un ateneo europeo, nel 2019 ne sono andati in Erasmus 274.000. Nel complesso, si può stimare che circa il 98% dei giovani europei non abbia preso parte agli scambi Erasmus in questi decenni – non ci troviamo esattamente a che fare con una «generazione Erasmus», insomma.
D’altra parte, rimangono minoritarie anche altre esperienze di mobilità giovanile attraverso i confini nazionali. Nonostante Ryanair, Flixbus e BlaBlaCar, nel 2019 l’88% degli italiani tra i 15 e i 34 anni non ha trascorso nemmeno una notte di vacanza all'estero. Se si guarda alle migrazioni – quando cioè ci si trasferisce all'estero per almeno un anno o più – nel 2019 circa 600.000 persone tra i 15 e i 34 anni si sono spostate da un Paese all'altro dell'Ue. Una percentuale più che doppia rispetto a quella degli studenti partiti in Erasmus nello stesso periodo, ma comunque relativamente piccola rispetto al totale dei giovani.
Nonostante questi numeri, la formula «generazione Erasmus» si è affermata con grande forza. La prima ragione è legata all'estrazione sociale e al livello di istruzione di chi ne parla e la celebra: siamo noi laureati poliglotti e sono i nostri fratelli, figli e amici a essere partiti in Erasmus; dopodiché diventiamo giornalisti, redattori, talvolta politici, e comprensibilmente lo rappresentiamo come un momento fondativo della nostra identità generazionale. È un'esperienza che ci siamo goduti molto e che pensiamo sia assai comune, mentre invece riguarda solo una piccola minoranza di giovani che già sono gli studenti universitari.
Si pensa che l’esperienza Erasmus sia assai comune. Invece riguarda solo una piccola minoranza di studenti universitari
Il programma Erasmus+ è da sempre gravato da seri ostacoli di tipo economico, che diventano fonte di esclusione per intere fasce sociali. Chi parte in scambio infatti riceve una borsa che non è commisurata al reddito dello studente o della famiglia che lo ha a carico, e che è solo debolmente correlata al costo della vita nel Paese di destinazione. È possibile che alla borsa dell'Ue si aggiungano contributi di autorità locali o di singoli atenei, ma è comunque raro che il sostegno finanziario riesca a coprire tutte le spese legate allo scambio all'estero. Per ragioni amministrative, spesso inoltre la borsa arriva allo studente solo dopo la partenza o in alcuni casi addirittura dopo il rientro, costringendolo ad anticipare buona parte delle spese extra.
Il risultato è che, se sei figlio di professionisti, hai il 50% di probabilità in più di partire per l'Erasmus rispetto a un tuo compagno di corso figlio di operai. E puoi contemplare un numero maggiore di possibili destinazioni, incluse le università che si trovano nei Paesi europei a più alto reddito.
Ora che il programma Erasmus+ stesso, con i suoi 35 anni di attività, è entrato inequivocabilmente nell'età adulta, si stanno finalmente delineando degli aggiustamenti che dovrebbero contribuire a renderlo un'esperienza meno elitaria. L'allargamento del programma a gruppi diversi dagli studenti universitari nel 2014 era stata una prima mossa significativa, anche se il suo successo pare ancora limitato. Il secondo grande cambiamento è il poderoso aumento del bilancio a disposizione del programma, che è stato quasi raddoppiato per il periodo 2021-27 rispetto al periodo 2014-20. Nei prossimi anni dovrebbero finalmente esistere i margini per aumentare l'ammontare delle borse di studio e sostenere con più forza gli studenti provenienti da famiglie e Paesi dal reddito medio e medio-basso.
Certo è verosimile che continui a operare quel forte processo di autoselezione rilevato da Teresa Kuhn, che di questo s'è molto occupata. A parità di condizioni, sono più propensi a partire in Erasmus gli studenti con un maggiore attaccamento all'idea di integrazione europea, con una migliore conoscenza delle lingue straniere, e così via. La mobilità internazionale dovrebbe contribuire ad aprire le menti e rafforzare il senso di identità europea, il paradosso è che in questi anni si è rivolta innanzitutto a quelli che ne avrebbero avuto meno bisogno.
La mobilità internazionale dovrebbe rafforzare il senso di identità europea. Il paradosso è che in questi anni si è rivolta innanzitutto a quelli che ne avrebbero avuto meno bisogno
Un problema che peraltro colpisce anche un'altra iniziativa introdotta dall'Ue per spingere i giovani a conoscere Paesi europei diversi dal proprio, e cioè la concessione di biglietti Interrail gratuiti a decine di migliaia di diciottenni ogni anno. I biglietti vengono distribuiti solo in base alle risposte date a un quiz che misura la familiarità con l'Ue: facile immaginare che se li aggiudichi una minoranza di giovani fortemente selezionata a monte.
Benché costituiscano un drappello ristretto, è vero che gli studenti Erasmus sono per certi versi rappresentativi di una fascia anagrafica che mostra un atteggiamento più positivo nei confronti dell'Unione e dell'integrazione europea rispetto ai loro genitori e nonni. Lo confermano ancora una volta i dati dell'ultimo Eurobarometro: i cittadini europei al di sotto dei 35 anni si fidano dell'Ue più di tutte le altre generazioni. Eppure, in Italia così come in Francia e altrove, molti giovani sono anche propensi a votare partiti e candidati decisamente euroscettici.
Per parlare in modo efficace a loro e alle persone con cui si relazionano, l'Ue dovrebbe insistere meno sul meraviglioso mondo di opportunità offerte dalla mobilità attraverso i confini, che a quei settori della società rimangono quasi del tutto sconosciute. Che cosa potrà mai interessare loro dell’Erasmus o della fine del roaming? Perché mai dovrebbero apprezzare la praticità della moneta unica e dell’abolizione dei controlli alle frontiere? È urgente elaborare narrazioni dell'integrazione europea meno elitarie e più inclusive, che vadano ben oltre la dimensione della mobilità: abbandonare l'espressione «generazione Erasmus» sarebbe un primo passo.
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