Cantare è un po' pazziare, via. Comunemente si parla, eccezionalmente si canta. Appena una condizione d'animo si leva dalla normalità, si stacca dalla quotidianità, e si fa stramba, si esalta da sé, viaggia «fuori di sé», allora la parola può diventare canto, un canterellare, un fischiettare, anche solo un pensar di cantare: insomma, musica. Tanto più nella musica d'arte, dove l'opera romantica ha fatto cantare scene di pazzia o delirio all'Assur di Rossini, all'Elvira di Bellini, alla Lucia di Donizetti, alla Lady Macbeth di Verdi, all'Ofelia di Massenet. E dunque, alla faccia di fonti autorevoli come Voltaire o Shakespeare, quale fonte d'ispirazione si può dare per l'opera che sia più esplicita e pertinente dell'Orlando furioso? La domanda non è retorica, perché questo 2016 che è appena finito e che si è ingegnato a celebrare come merita la figura dell'Ariosto e il mezzo millennio della prima stampa del suo poema, ha saputo allargare il discorso oltre la letteratura e toccare la recitazione, la pittura, il teatro dei pupi, la televisione, l'adattamento più libero, ma con la musica è stato piuttosto avaro. Come spesso accade, purtroppo, con una disciplina che tanto dice al mero senso dell'udito quanto tace a quello superiore dell'intelletto.
Con l'Ariosto il discorso è doppio, lo stesso del resto che con un Omero, un Hugo, un Pascoli: che musica avevano ascoltato quei signori, ai loro tempi? Che musica avrebbe ascoltato la loro poesia, successivamente? Reggiano di nascita, messer Ludovico visse lungamente a Ferrara, presso la corte estense che era forse la più raffinata d'Italia, e come beò i cortigiani con i suoi versi fantastici così si sarà beato lui a sentire le dolci musiche in uso, polifonie dotte o popolareggianti che fossero. Nel 1517, l'anno dopo l'edizione, il Tromboncino musicò «Queste non son più lacrime», il lamento di Orlando ingelosito e infuriato di fronte all'evidenza degli amori d'Angelica e Medoro. E molti altri luoghi del poema invitarono i musicisti a decorarli: Astolfo sulla luna, Doralice che si concede a Mandricardo, l'irresistibile Alcina, sopra tutti i patetici lamenti di Olimpia, Isabella, Bradamante; ma anche certi passi di carattere sentenzioso come «La verginella è simile alla rosa» o naturalistico come «Cantan fra i rami gli augelletti vaghi». Nel 1559 Salvatore di Cataldo pubblicò Tutti i Principii de' canti dell'Ariosto posti in musica, e tutti gli stessi inizi dei 46 canti avrebbe pubblicato Francesco Ricciardo nel 1600.
Era alle porte il teatro d'opera, allora, e l'interesse per il mito più canoro e antico possibile che era quello di Orfeo non doveva andare a discapito della modernità della poesia epica, né testi più recenti come la Gerusalemme liberata del Tasso e il Pastor fido del Guarini potevano offuscare la memoria dell'Orlando furioso. Donde drammi per musica come Lo sposalizio di Medoro e di Angelica di Marco da Gagliano, La liberazione di Ruggiero dall'isola di Alcina di Francesca Caccini, Il palazzo incantato d'Atlante di Luigi Rossi, perfino un «balletto a cavallo» come il Ruggiero liberato di Girolamo Giacobbi. Il dado era tratto, e per tutto il Sei e Settecento continuò a giocare con successo: tragedie francesi, ecco Les plaisirs de l'île enchantée di Lully e il Roland di Piccinni; melodrammi italiani, ecco l'Orlando di Vivaldi (in ben tre versioni), l'Ariodante di Händel, l'Orlando paladino di Haydn, il Ruggiero di Hasse. Angelica da parte sua? L'amata di Orlando (e di tutti) dà titolo alla serenata in due parti del Metastasio che partì da Napoli nel 1720 con la musica di Porpora e giunse a Padova nel 1796 con quella di Mortellari. Ma Angelica soccombe al cospetto di Alcina, la maga malefica che innamora tutti i paladini e innamorò almeno una ventina di operisti. Sopra tutti Händel, che nel 1735 regalò a Londra uno dei drammi in musica più belli dell'intero parterre barocco, con arie declamatorie come «Ombre pallide» e virtuosistiche come «Tornami a vagheggiar».
Sono la magia, la fantasia, l'avventura, l'illusione, la trasformazione, il continuo incrociarsi di donne, cavalier, armi ed amori a dare vita all'ineffabile poema ariostesco, e in particolare quel perenne senso di fuga, di inseguimento, di ricerca insoddisfatta, di anelito inappagato, più che i sentimenti umani nella loro semplicità e verità. E dunque l'Ottocento romantico non ebbe troppa simpatia per quel mondo, sebbene medievale come gli intrecci che piacevano a Bellini, Verdi & Company, a quel Donizetti che invece musicò un Torquato Tasso nevrotico e delirante al punto giusto. Inevitabilmente reattivo, il Novecento qualcosa doveva recuperare, invece, e magari proprio in Italia: nel 1923 Dallapiccola dedicò una rapsodia alla «morte del Conte Orlando e nel 1947 Petrassi inscenò alla Scala La follia di Orlando, balletto con recitazione e canto.
Clamorosamente protagonistici, questi titoli. Ma fra Cinque e Seicento ha girellato per tutt'Europa il Ruggiero, un plesso di suoni e note chissà quanto veramente ariostesco, che inizialmente cantò «Ruggier qual sempre fui, tal esser voglio» (così Bradamante all'amato) e divenne ingrediente di qualche centinaia di diverse gustose salse musicali. E quanto a mere suggestioni, perché mai il Così fan tutte di Da Ponte e Mozart, che non denunzia fonte di sorta, battezza i tre personaggi femminili Fiordiligi, Despina e Dorabella? Ma certo perché ricorda, dell'Orlando furioso, le signore cavalleresse Fiordespina e Doralice.
Riproduzione riservata