La prossima elezione presidenziale del 2020 sottopone le pratiche e le istituzioni della democrazia americana a una pressione con pochi precedenti. Se la lettura dei risultati elettorali e il passaggio dei poteri godono di una solida, regolare tradizione, molti interrogativi odierni temono una loro delegittimazione e una crisi costituzionale.
Un primo terreno di inquietudine è la radicale polarizzazione in cui si trova il Paese dai tempi di Clinton. Si tratta oggi di un’elezione/referendum su Trump, dove solo circa il 10% dell’elettorato è ancora incerto sulla scelta dei candidati. Questo svuota il peso del dibattito pubblico elettorale, tradizionale strumento democratico per la formazione delle preferenze, che si è invece riempito di contumelie e insulti tali da mettere in dubbio la legittimità democratica del competitore. Lo si è visto nel primo, caotico dibattito televisivo tra Trump e Biden, come nella cronaca quotidiana delle dichiarazioni elettorali. Sono spariti l’antico pragmatismo e lo spirito bipartisan della politica americana e i membri del Congresso votano sempre più spesso secondo rigide discipline di partito. Se la malattia di Trump sembrava suggerirgli una strategia elettorale meno urlata, capitalizzando la solidarietà per il presidente malato e l’obbligo dei democratici di attenuare le punte polemiche, l’ipotesi è subito tramontata. Appena riapparso, Trump ha dato immediatamente del cretino a Biden e del “mostro” e “comunista” alla candidata vicepresidente Kamala Harris.
Il secondo terreno di usura delle istituzioni politico/elettorali è la manipolazione del diritto di voto. È in atto a livello statale una dura battaglia politica e legale, con oltre 300 cause in corso, per definire spazio e limiti del diritto ed esercizio di voto, sulla base della convinzione che il tasso di partecipazione elettorale deciderà il risultato e che, in linea di massima, la sua limitazione avvantaggia i repubblicani e l’opposto i democratici. Quindi Congressi e Corti supreme statali tendono, ad esempio, ad allentare o restringere regole di documentazione dell’identità o registrazione al voto anticipata o permessa al seggio. Molte di queste misure riguardano “Stati in bilico”, decisivi per il risultato finale, e risentono di quale partito prevale nelle istituzioni locali. In Florida – importante stato in bilico con ben 29 membri del Collegio elettorale, l’organo che designa il presidente – il Congresso e la Corte suprema statale hanno interpretato il restauro del diritto di voto dei condannati penali che abbiano soddisfatto i termini della sentenza come comprendente anche tutte le spese legali, peraltro fissabili solo ben dopo la data elettorale. Si tratta spesso della cosiddetta “voter suppression”, volta a escludere segmenti specifici dell’elettorato, come neri e minoranze prevalentemente favorevoli ai democratici.
Questa controversia si appunta soprattutto sul voto postale, in netta crescita a causa del timore dei contagi al seggio e nettamente promosso da Stati democratici. Il 25 settembre essi già pensavano di spedire 71 milioni di schede di voto, il 50% in più di quelle inviate nell’intera elezione del 2016. Trump e il suo partito lo hanno duramente attaccato come fonte di brogli senza averne alcuna prova, ma il voto postale allarga l’elettorato e favorisce i democratici. In che data deve arrivare il voto, quanto integra e segreta deve essere la busta, entro che data deve essere contato? È in corso una polemica sul servizio postale americano, alla cui testa Trump ha nominato Louis DeJoy, suo partigiano e finanziatore, per la riduzione di straordinarie macchine selezionatrici, ritardando il servizio. In Texas, Stato in bilico con il più alto numero (38) dopo la California (53) di membri del Collegio elettorale, un giudice federale ha bloccato l’ordine del governatore Greg Abbott di ridurre i siti legittimati a ricevere il voto postale a uno solo per contea, rendendone l’esercizio più difficile.
Se ne andrà?, titola un recentissimo libro sulla successione presidenziale. Citando queste presunte irregolarità, Trump ha detto “dovremo vedere cosa succede”, evitando di impegnarsi in caso di sconfitta all’ordinato passaggio di potere. È un suo vecchio tema: secondo lui, la sua vittoria del 2016 in minoranza di voti è stata dovuta ai “millioni di persone che votarono illegalmente”.
Le controversie indicate sono la fonte di una pletora di cause legali promosse da entrambi i partiti a livello statale sulla interpretazione del diritto di voto, sulla definizione statale del vincitore e sulla conseguente designazione locale dei componenti del Collegio Elettorale. Tra l’altro, la normativa federale si presta a varie interpretazioni, per non dire della pletora di quelle statali. Un Congresso o la Corte suprema potrebbero ritenere una parte dei voti illegittima e proclamare un diverso vincitore, oppure violare il vincolo di mandato del membro statale del Collegio. In California, ad esempio, un voto postale è valido se datato prima o il giorno stesso della elezione e arriva entro 17 giorni da quest’ultimo. Nel 2018 in Arizona la candidata senatrice repubblicana perse alla fine della conta, dopo essere stata in vantaggio di 15.000 il giorno del voto. Che cosa farebbe Trump se, in vantaggio nei voti in presenza, vedesse il risultato capovolto dopo la conta dei voti postali che lui aborrisce? La Casa Bianca sta esercitando forti pressioni in questa direzione su governi statali repubblicani in bilico, come Pennsylvania e Wisconsin. Le già nutritissime squadre legali dei due partiti si attrezzano in vista di una possibile battaglia sul “disastro elettorale” e su un tentativo di “via giudiziaria al governo”, che condizioni il risultato del voto, la formazione del Collegio elettorale, la proclamazione del nuovo presidente. Trump spera che la controversia finisca davanti a una Corte suprema a lui favorevole, che gli consegni la nomina, come era stato il caso del conflitto Bush-Gore del 2000, votato dai giudici su stretta base politica e mai più citato come precedente nella successiva attività della Corte. Anche per questo, ma non solo, Trump e il Senato repubblicano spingono per la rapida approvazione del nuovo giudice Amy Coney Barrett, che sancirebbe un’ampia maggioranza conservatrice e trumpiana, malgrado l’eclatante differenza di trattamento del posto vacante in periodo elettorale, con un rimpiazzo negato a Obama e accelerato invece adesso.
Il timore è di una forte erosione della legittimità di istituzioni e procedure cardine della vita democratica, e casi recentissimi indicano possibili patologie di un Paese democratico: la scoperta di un complotto per rapire la governatrice democratica del Michigan Gretchen Whitmer, dopo che Trump aveva fatto appello alla “riconquista dello Stato”, il suo rifiuto di condannare i suprematisti bianchi, invitandoli a “stare all’erta” durante le elezioni, il possibile ricorso dei democratici al 25o Emendamento, che permette di rimuovere il presidente incapacitato.
Corre voce che la preghiera del funzionario elettorale sia: “Mio Buon Signore, fai che non sia di misura”. Più netto sarà il responso degli elettori, meno spazio ci sarà per lotte legali, istituzionali, e giudiziarie. Mentre un risultato sul filo di lana aprirebbe una grave crisi costituzionale.
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