Il governo ha raggiunto un accordo con la sua maggioranza per l’approvazione delle delega fiscale, che dovrebbe contenere i capisaldi di una riforma generale del fisco italiano da tempo attesa e mai affrontata. Le principali carenze del fisco italiano al momento dell’emanazione della delega erano note, o almeno avrebbero dovuto esserlo. Riassumendo:

1. La generale frammentazione che ha prodotto una sorta di balcanizzazione e “ri-cedolarizzazione” del sistema per cui diverse tipologie di reddito sono trattate differentemente (e contribuenti con lo stesso reddito subiscono prelievi differenti, anche in misura rilevante).

2. La ridotta capacità redistributiva del sistema nel suo complesso, e la scarsa preoccupazione per la sua efficienza e neutralità economica.

3. La perdurante evasione di massa.

4. Il trattamento difforme dei redditi di capitale.

5. La struttura delle aliquote Irpef, erratica e caratterizzata da numerose aliquote implicite che risulta(va)no talvolta decrescenti al crescere del reddito e l’erosione della sua base imponibile.

6. La scarsa razionalità dell’imposizione a base patrimoniale e la questione del catasto.

7. La necessità di riorganizzare la imposizione sulle imprese differenziando tra contribuenti minimi, imprese individuali o società per azione.

8. L’eccesso del prelievo, fiscale e contributivo, sul lavoro rispetto agli altri redditi.

9. Il sistema di riscossione.

10. Il contenzioso.

11. La modernizzazione dei sistemi di accertamento con l’utilizzazione dei big data e dell’intelligenza artificiale.

12. Il rafforzamento del sistema doganale.

Molte di tali questioni non sono state nemmeno sfiorate dalla delega che consiste(va) in 10 articoli, molto sintetici, generici, spesso vaghi e di incerta comprensione e interpretazione, facendo perciò nascere non infondati dubbi di incostituzionalità.

Senza attendere l’approvazione della delega, il governo è intervenuto sull’Irpef razionalizzando alquanto la struttura delle aliquote, ma senza affrontare la questione di fondo della sua base imponibile (erosione, trattamenti differenziati ecc.). Il governo ha poi presentato una riforma del sistema contenzioso non prevista nella delega, ma che va valutata positivamente. Tra tante proposizioni vaghe, la delega conteneva tuttavia due proposte innovative: la riforma del catasto e la riforma del sistema di imposizione diretta con l’adozione di un sistema organico di Dual Income Tax.

Opporsi alla riforma del catasto italiano significa semplicemente voler mantenere un indebito privilegio per i ceti abbienti

Per quanto riguarda il catasto, è bene ricordare che i valori catastali attuali sono stabiliti in base a un classamento che risale agli anni Trenta del secolo scorso, a rendite ricalcolate negli anni Ottanta e rivalutate successivamente in maniera parziale e eguale per tutti gli immobili, nonostante la diversa dinamica dei prezzi. In sostanza, si tratta quindi di valori arbitrari e per nulla rappresentativi. Opporsi alla riforma di questa importante infrastruttura non è quindi logicamente sostenibile e significa semplicemente voler mantenere un indebito privilegio per i ceti abbienti del nostro Paese.

Peraltro, una riforma organica del catasto fabbricati era stata presentata in Parlamento dal governo Monti nel 2013, poi decaduta per la fine della legislatura. Durante il governo Letta era stata recuperata dal deputato Pd Causi e approvata all’unanimità in forma di delega. Delega che poi non fu esercitata dal governo Renzi per timore delle reazioni dei proprietari di immobili (Confedilizia). Ora un nuovo tentativo da parte di Draghi, che peraltro escludeva tassativamente che la riforma potesse essere applicata in concreto per diversi anni proprio per cercare di superare l’opposizione della destra.

L'esecutivo ha rischiato di andare in minoranza due volte, fino ad arrivare a un accordo che sul piano politico (e anche ideologico-culturale) rappresenta una sconfitta del governo e una vittoria delle destre

Ne è derivata una guerriglia parlamentare in cui il governo ha rischiato di andare in minoranza due volte, salvandosi per un voto, fino ad arrivare a un accordo che sul piano politico (e anche ideologico-culturale) rappresenta una sconfitta del governo e una vittoria delle destre, soprattutto della Confedilizia e del suo ex presidente Sforza Fogliani. Il governo infatti ha rinunciato a un catasto fondato sui valori patrimoniali degli immobili e quindi coerente con un mercato che funziona su base patrimoniale (valore per metro quadro), così come patrimoniali sono le imposte per le quali il catasto viene utilizzato (Imu, imposta di successione, imposta di registro), per rimanere su un catasto reddituale (gli affitti) da cui pervenire ai valori patrimoniali mediante una operazione di capitalizzazione, come accade adesso.

Questo obiettivo viene raggiunto in modo abbastanza pasticciato, prevedendo la permanenza delle rendite attuali, di nuove rendite che ad esse si affiancano, ma anche il riferimento ai valori immobiliari ricavabili dall’Osservatorio sul mercato immobiliare che opera su base patrimoniale registrando per ogni Comune il valore degli immobili per metro quadro in base alle compravendite effettive. In sostanza, la destra è riuscita ad evitare che venisse formalmente stabilito che la base imponibile per l’imposizione immobiliare potesse essere il patrimonio anziché il reddito.

Dal canto suo il governo può sostenere che comunque la riforma del catasto si farà, che le rendite verranno aggiornate e che le disparità di trattamento verranno superate, e che quindi nella sostanza ha vinto. Dimenticando che in politica spesso la forma è sostanza. Tuttavia, la scelta compiuta ha anche conseguenze economiche non trascurabili, dal momento che i valori reddituali (i fitti) spesso “non esistono” o non sono facilmente rilevabili, che essi spesso sono relativamente più elevati per gli immobili di piccole dimensioni rispetto agli altri, e che i valori patrimoniali incorporerebbero progressivamente anche l’incremento di valore patrimoniale dei cespiti, cosa che gli affitti non fanno. Ne deriva un beneficio per i contribuenti più ricchi, che era poi l’obiettivo effettivamente perseguito.

Quello che comunque Sforza Fogliani e i suoi seguaci trascurano è il fatto che se i valori patrimoniali sono stabiliti in base a un tasso di capitalizzazione che può essere deciso dal governo con un decreto in modo più o meno arbitrario (oggi, per esempio, sono diversi per Imu, successione e registro) la tutela dei contribuenti risulta molto più debole di quella che garantirebbe un catasto basato su valori patrimoniali trasparenti e non manipolabili a piacimento. Ma tant’è.

Tuttavia, la disfatta del governo, anzi la sua ritirata e resa senza condizioni, è avvenuta sull’unico aspetto della riforma che si basava su una visione organica del sistema tributario e della imposizione diretta, e cioè l’adozione di un sistema compiuto di Dual Income Tax (Dit).

Tale sistema rappresenta un’alternativa al sistema di imposizione generale progressiva del reddito che si era affermato in tutti i Paesi dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, e che consisteva nel tassare con un’unica struttura di aliquote fortemente progressive l’intero reddito di ciascun contribuente, quali che fossero la sua fonte e la sua origine (lavoro, capitale ecc.). Questo sistema non aveva mai attecchito in Italia, Paese in cui le resistenze nei confronti di una tassazione progressiva sono state, e rimangono, sempre fortissime se non insuperabili, per cui la riforma del 1973, pur uniformando in forte ritardo la tassazione italiana a quella degli altri Paesi, evitava di includere i redditi di fonte patrimoniale nella base imponibile della imposta sul reddito.

Ad ogni modo, negli anni Ottanta questo sistema era entrato in crisi, in quanto da un lato l’elevata inflazione allora prevalente rendeva eccessiva e di fatto insostenibile la tassazione con le aliquote ordinarie di alcuni redditi da capitale ‑ che incorporavano nel loro ammontare una componente derivante dall’aumento dei prezzi; ad esempio un capitale di 100 investito in obbligazioni con rendimento del 5% in tempi di prezzi stabili, in presenza di una inflazione del 10% tendeva ad accrescere il suo rendimento a 15, di cui però 10 non erano altro che il recupero della svalutazione del capitale (100) a causa dell’inflazione. Tassare l’intero reddito (15) con le aliquote progressive allora in vigore (spesso superiori al 60-70%) non era né equo né tollerabile. Lo stesso avveniva con i guadagni di capitale – dall’altro, la globalizzazione, allora all’inizio, e la ben maggiore mobilità dei redditi di capitale rispetto a quelli da lavoro consigliavano di non tassare eccessivamente questi redditi, pena la loro emigrazione verso altri mercati.

Si immaginò quindi un nuovo sistema, denominato duale, che manteneva una progressività (più moderata) per i redditi di lavoro, riservando ai redditi di capitale una tassazione proporzionale con l’aliquota più bassa della scala di progressività della imposta sui redditi di lavoro. Questo sistema aveva una sua razionalità e plausibilità nel contesto del tempo che portava ad accettare una innovazione di non poco conto, e cioè che i redditi di capitale avessero una capacità contributiva minore e non maggiore di quella dei redditi di capitale come fino ad allora era risultato ovvio. E non a caso esso fu adottato con la riforma Visco del 1996, ma subito dopo abbandonato del governo successivo.

Nel caso italiano, infatti, la Dit consentiva comunque di tassare in modo uniforme tutti i redditi da capitale compresi quelli esenti (i guadagni di capitale) o tassati molto poco come gli interessi sulle obbligazioni pubbliche. Oggi la situazione è molto diversa da quella di allora e quindi il recupero del sistema Dit da parte del governo Draghi poteva apparire discutibile, ma rappresentava comunque un progresso rispetto al disordine e agli abusi della tassazione attualmente in vigore.

Il sistema Dit era stato peraltro proposto dalla risoluzione votata dal Parlamento a conclusione di una lunga indagine conoscitiva e quindi la sua adozione sembrava acquisita. Ma così non è stato, e improvvisamente i parlamentari si sono resi conto che la inevitabile razionalizzazione della imposizione sul reddito imposta dal sistema Dit non era tollerabile. Quindi, dopo un lungo braccio di ferro, il sistema duale è saltato completamente, e il nome stesso è stato espunto dalla delega, mantenendo la differenziazione delle aliquote che si applicano alle diverse forme di reddito da capitale o immobiliare; si scrive addirittura che il sistema dovrà essere strutturato su base cedolare, come era prima della riforma del 1973, e quindi si prospetta una regressione politica e culturale enorme, espressione non solo di protervia, ma di una estrema ignoranza.

In questo contesto, la delega mantiene e rafforza il regime forfettario per i lavoratori autonomi e le piccole imprese che sarebbe logicamente incompatibile col sistema Dit e che rappresenta una delle principali distorsioni e fonte di iniquità del sistema attuale. In virtù di tale sistema, per fare un esempio, a parità di reddito, poniamo 35.000 euro, un lavoratore indipendente continuerà a pagare 2.500 euro in meno di un dipendente e 3.400 euro in meno di un pensionato. A tutto ciò si aggiungono le contorsioni logiche e lessicali presenti in tutto il testo, a cui ciascun partito ha imposto il proprio “contributo”.

In sostanza, il governo pur di ottenere il via libera formale a una riforma, inconsistente e scientificamente impresentabile, che non sarà mai attuata, accetta un accordo al ribasso. Nella convinzione che l’opinione pubblica non sarà in grado di capire di che cosa si tratta in realtà, si opta (forse giustamente) per la durata del governo, mentre un chiarimento proprio sul fisco sarebbe stato molto utile. Tra le forze politiche solo Leu ha avuto il coraggio di votare contro l’articolo 2, che è quello relativo al sistema duale, mentre il Pd sembra essere appiattito sul governo Draghi indipendentemente dai contenuti della sua azione, e le destre continuano a manifestare la loro vocazione eversiva in materia di tassazione, risultando però egemoni in Parlamento vista anche la confusione permanente in cui versa il M5S.

La questione fiscale rappresenterebbe un terreno adatto a una battaglia politica esplicita, frontale e chiarificatrice; ma è da escludere che oggi qualcuno voglia intraprenderla

Ma l’aspetto più preoccupante della vicenda è che – se si considerano gli esiti del dibattito sulla delega fiscale e le posizioni sistematicamente assunte in materia tributaria e che di fatto sono maggioritarie nell’attuale Parlamento – si deve concludere che la visione complessiva del sistema impositivo che emerge è alquanto inquietante. Può essere così riassunto:

1) Le imposte non possono mai essere aumentate, ma solo ridotte; non solo nel loro complesso, ma anche per i singoli contribuenti.

2) Le disparità di trattamento esistenti sono o irrilevanti o funzionali a specifici obiettivi politici e di consenso; quindi vanno mantenute.

3) Il contrasto all’evasione altro non è che un modo alternativo di aumentare le tasse.

4) Gli accertamenti già effettuati (evasione accertata) vanno rottamati.

5) I metodi di accertamento moderni più efficaci, quelli basati sull’uso congiunto di tutte le banche dati e della intelligenza artificiale non vanno adottati, facendo magari leva del sabotaggio sistematico posto in opera dal garante della privacy.

6) I redditi di capitale, immobiliari, dell’agricoltura ecc. devono essere tassati meno di quelli da lavoro; tra questi, alcuni non vanno tassati affatto.

7) I redditi da lavoro indipendente devono essere tassati molto meno di quelli da lavoro dipendente o da pensione, in quanto i lavoratori dipendenti sono garantiti, mentre gli autonomi si assumono rischi; quanto ai pensionati, essi rappresentano una categoria improduttiva, quindi non meritevole di attenzione.

8) Il cuneo fiscale va ridotto, ma la riduzione non può essere finanziata all’interno del sistema fiscale; deve quindi avvenire in disavanzo.

9) Le imprese maggiori non vanno disturbate e vanno lasciate libere di eludere, solo in caso di estrema necessità potrebbero essere chiamate a contribuire.

10) Evocare imposizioni patrimoniali (prima casa, Imposta di successione ecc.) comporta la scomunica.

11) Nessuna razionalizzazione delle aliquote Iva è opportuna, dato che il prezzo di alcuni beni potrebbe aumentare.

12) Nessun prelievo di solidarietà per sostenere le famiglie più danneggiate dalla crisi energetica in corso può essere preso in considerazione.

Questo è il senso comune sulle tasse prevalente oggi nel nostro Paese. Come si vede, questo sarebbe un terreno adatto a una battaglia politica esplicita, frontale e chiarificatrice, ma è da escludere che oggi qualcuno voglia intraprenderla. Se dopo le prossime elezioni politiche prevarranno forze politiche che vorranno davvero attuare le proposte che oggi propagandano, il default finanziario dell’Italia sarà assicurato.