La sinistra in Europa registra una crisi strutturale, che non è riducibile né appare riconducibile alla fase contingente. La crisi dei partiti di sinistra in Europa non è una crisi elettorale e non è nemmeno una crisi ciclica. Una crisi che interroga il contenuto stesso e il termine “sinistra” in sé e, soprattutto, che ha a che vedere con il ruolo e le funzioni che la sinistra intende svolgere nel XXI secolo all’interno dei regimi democratici e nel processo di profondo rinnovamento e ristrutturazione del sistema capitalistico contemporaneo.

Dentro tale crisi s’incontra quella della sinistra radicale, che negli anni scorsi – anche se a macchia di leopardo – ha tentato di costruire le condizioni (localizzate) di una reazione possibile dentro una piattaforma politica già definita a populismo “inclusivo”, o a sovranismo “democratico”. Dopo circa un decennio, però, anche quel tentativo è vicino a registrare un’altra sconfitta storica. I casi più importanti sono quello spagnolo di Podemos, erede dei fatti di Puerta del Sol (del 15 maggio 2011) e del movimento de los indignados, e quello greco di Syriza, giunto al governo del Paese dopo il movimento di Piazza Syntagma, che nell’estate del 2011 protestava contro gli esiti preoccupanti della crisi della Great recession.

Quella stagione di crescita per una parte della sinistra europea dura circa un lustro. In Grecia, dopo essere stato al governo (dal 2015 al 2019), Alexis Tsipras perde le elezioni parlamentari nel 2019 e nel 2023 viene sonoramente sconfitto alle elezioni politiche da Kyriakos Mitsotakis, leader di Nuova democrazia, il partito della destra ellenica. In Spagna, Podemos, dopo aver registrato violente scissioni interne e la ritirata a vita privata del leader-fondatore, Pablo Iglesias, partecipa alle elezioni del luglio del 2023 in condizioni di estrema debolezza, all’interno di un rassemblement (la coalizione Sumar), che intende mettere insieme in un unico cartello elettorale tutte le formazioni politiche collocate a sinistra del Psoe. È questo un progetto diretto da Yolanda Díaz, ministra del lavoro del governo socialista guidato da Pedro Sanchez, che vede Podemos in una condizione di rilevante difficoltà nel nascente raggruppamento politico.

Tra le formazioni della sinistra radicale, in Europa, solo Jean Luc Mélenchon mostra ancora una propria vitalità, avendo ottenuto un ottimo successo alle elezioni presidenziale e legislative del 2022

Tra le formazioni della sinistra radicale, in Europa, solo Jean Luc Mélenchon mostra ancora una propria vitalità, avendo ottenuto un ottimo successo alle elezioni presidenziale e legislative del 2022 (mentre Emmanuel Macron viene confermato alla presidenza della Quinta Repubblica), interpretando, in Francia, il ruolo di leader del fronte ampio della sinistra nazionale, che a partire dalla quasi-scomparsa del Partito socialista si fa promotore di una profonda ricomposizione politica. Dato il sistema istituzionale francese, però, il successo di Mélenchon appare intimamente legato alla sua leadership personale, in qualità di storico rappresentante della componente troskista in passato organizzata all’interno del Partito socialista, attualmente impegnato in un progetto capace di attirare l’attenzione e il favore di una porzione consistente dell’elettorato progressista.

Fatta relativa eccezione per il caso portoghese, dove António Costa guida dal 2015 un governo a maggioranze variabili, che negli anni scorsi ha visto anche la partecipazione del Bloco de esquerda e del Partito comunista portoghese, le prospettive per la sinistra e per i partiti europei della sinistra radicale non sono rosee. Per indagare i motivi della crisi, in una recente monografia pubblicata con il titolo Sinistra senza classi, ho cercato di indagare quattro ragioni fondamentali che hanno a che vedere con il disallineamento tra gli esiti determinati dai processi di trasformazione in corso e la capacità organizzativa dei principali partiti della sinistra in Europa.

La prima ragione che mette fuori gioco i partiti della sinistra europea è riconducibile, alla fine del “Secolo breve”, al definitivo superamento del modello di produzione fordista, centrato sulla fabbrica, intesa anche come spazio di socializzazione politica per una “moltitudine” di persone, che – nella condivisione di un destino comune legato alle condizioni di vita materiali – perveniva a una coscienza collettiva, in grado di dare luogo a un nuovo soggetto politico (la classe per sé di Marx), protagonista tra Otto-Novecento della condizione di emancipazione del proletariato internazionale, di cui socialisti e comunisti si facevano interpreti e interlocutori.

Strettamente connessa alla prima, la seconda ragione che può spiegare la crisi strutturale della sinistra in età contemporanea è attribuibile alla forte accelerazione del cosiddetto processo di individualizzazione sociale, capace di separare il destino dei singoli individui da quello dei propri gruppi di appartenenza, siano questi i lignaggi, le caste, i ceti, o le classi sociali, fondando così il primato dell’individuo sulla società e rendendo allo stesso tempo quest’ultimo più libero delle proprie scelte, ma anche più solo (se non isolato) all’interno della trama delle relazioni sociali che nel corso del Novecento aveva funzionato sia come strumento di protezione sociale sia come mezzo di emancipazione e lotta politica.

La terza ragione è riconducibile a ciò che Pippa Norris e Ronald Inglehart definiscono “Cultural backlash” (contraccolpo culturale). La loro tesi è che i processi di globalismo e di globalizzazione internazionale abbiano determinato una diffusa insicurezza sociale (di ordine individuale e collettivo), causata dalle innovazioni avviate soprattutto in campo economico e finanziario. Tali rinnovate condizioni di partenza contribuiscono, in quest’ottica, a definire i presupposti del successo di una minoranza di persone preparate a immettere le loro competenze e il loro know-how all’interno del processo internazionale di produzione capitalistico, e il simultaneo forte contraccolpo di un’ampia fetta di persone, incapaci di stare con successo all’interno dei processi di trasformazione imposti dal proprio tempo. È in questo contesto che viene a determinarsi una reazione immediata volta per lo più a premiare proposte difensiviste e/o protezioniste, in luogo di quelle più complesse a carattere trasformativo.

La quarta e ultima ragione della crisi della sinistra in Europa è legata alla rivoluzione informatica e tecnologica, che ha finito con il ridurre le potenzialità di azione del soggetto-partito, protagonista della fase precedente, rivoluzionando l’assetto nazionale e sovranazionale del sistema dei media e imponendo un processo di personalizzazione della politica (legato anche al fenomeno dell’individualizzazione sociale di cui sopra), che la sinistra e i partiti della sinistra radicale non hanno saputo interpretare né hanno saputo utilizzare a loro vantaggio.

Una crisi senza precedenti, capace di descrivere una sconfitta epocale dei partiti della sinistra (tutta), che hanno smesso d’interpretare un progetto di cambiamento politico

La combinazione di tutti questi elementi ha finito col produrre una crisi senza precedenti, capace di descrivere una sconfitta epocale dei partiti della sinistra (tutta), che – indipendentemente dalle condizioni contingenti di volta in volta determinate in corrispondenza di distinti scenari nazionali – hanno smesso d’interpretare un progetto di cambiamento politico, in grado di mettere in campo un programma culturale e d’azione alternativo a quello dominante, sussunto nel frame egemonico del neoliberismo. Nella gran parte dei casi, infatti, i partiti europei della sinistra post-novecentesca si sono resi protagonisti di un progetto soltanto di ordine adattivo, volto al governo dell’esistente, alle volte coniugato anche con un impianto di riforme regressive di tagli alla spesa pubblica e di erosione degli effetti redistributivi prodotti dal Welfare a partire dal “trentennio glorioso” (1945-1975).

Trovare gli strumenti utili a contrastare la crisi e per cercare di mettere in campo un progetto in grado d’invertire la rotta è compito che spetta alla politica e agli attori politici coinvolti e più interessati. Per quanto concerne questo tentativo di analisi, l’unica riflessione che è dato proporre è quella che, a partire dalle considerazioni espresse da Norberto Bobbio, intende tornare a mettere in stretta connessione i partiti della sinistra e della sinistra radicale con il principio di eguaglianza (inteso come eguaglianza sostanziale), o tensione verso questo obiettivo, senza per ciò sfociare nell’egualitarismo di ideologica maniera. Al di là di ciò che è stata, la sinistra in Europa non può non ripartire dalle questioni che interrogano il conseguimento di più ampie condizioni di eguaglianza sostanziale a favore di tutti i soggetti che compongono e che contribuiscono a realizzare una medesima comunità politica. Condizione, quest’ultima, che all’inizio del XXI secolo risulta essere fortemente ridotta rispetto alle conquiste registrate nella seconda metà del Novecento.

Per continuare a essere protagonista dei processi di trasformazione in atto, i partiti della sinistra (tutti) non possono non tornare a porsi con assillante preoccupazione la sfida dell’eguaglianza, nel tentativo di “rendere più eguali i diseguali”. Se la sinistra smetterà di svolgere questo compito non solo vedrà svalutata la propria funzione, ma andrà anche incontro a esiti non scontati quanto alla propria sopravvivenza.