«Incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro»: queste le finalità dichiarate della disciplina del cosiddetto «lavoro agile» (la metafora ginnica, benedetta dalla Crusca, ha avuto la meglio sullo smart working), secondo il disegno di legge in discussione alla Commissione lavoro e previdenza sociale del Senato. Al lavoro svolto nella nuova modalità – flessibile nei tempi e nel luogo della prestazione – si applicherebbero gli incentivi fiscali e contributivi «eventualmente riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato», pur restando l’intervento della contrattazione collettiva meramente eventuale, perché sarà l’accordo individuale fra lavoratore e datore di lavoro a definire concretamente le modalità della prestazione «da remoto» e l’assetto dei poteri (direttivo, di controllo e disciplinare) che la governeranno. Mentre le evidenti implicazioni sui fondamenti del diritto del lavoro e le ripercussioni in termini di tutela consiglierebbero prudenza, sembrano invece prevalere certi (troppo) facili entusiasmi, che sarebbe egualmente (troppo) facile liquidare con un’accusa di superficialità: più verosimilmente, l’occasione offerta dalle tecnologie informatiche per trasformare l’organizzazione del lavoro è troppo ghiotta per non esser colta anche come opportunità per sbilanciare ulteriormente gli assetti di potere.
Lasciando sullo sfondo la polemica più aspra, merita attenzione anche il profilo apparentemente meno controverso: quello dell’idoneità del «lavoro agile» a farsi veicolo di una migliore conciliazione fra tempi di lavoro e tempi personali/di cura.
I testi in discussione sono in realtà due, quello presentato dal Governo (n. 2233, per diversi aspetti tributario di una antecedente proposta in materia di smart working, prima firmataria on. Mosca, presentata nel gennaio 2014) e quello che ha come primo firmatario il sen. Sacconi (n. 2229), il quale è anche relatore in Commissione. Fra i due progetti vi sono differenze importanti – quanto all’ispirazione complessiva, ai soggetti destinatari, al ruolo assegnato alla contrattazione collettiva – ma li accomuna la disinvoltura con cui è dato per scontato che le migliori possibilità conciliative siano il risultato naturale e virtuoso dell’operazione, incorporato nella nuova modalità lavorativa. È davvero così?
Nel progetto governativo la conciliazione figura direttamente, insieme all’incremento della produttività, in sede di enunciazione generale delle finalità dell’intervento; ma nell’articolazione della disciplina nessuna condizione o limitazione è posta a garanzia che l’accordo individuale di «lavoro agile» si orienti effettivamente verso tale obiettivo e ne agevoli il perseguimento. Anzi, dall’accordo sulla modalità agile si recede liberamente, e molti interrogativi si aprono quanto ai riflessi che una simile disciplina «paritaria» (dell’accesso alla, e) del recesso dalla modalità agile può avere sulle esigenze conciliative del lavoratore/della lavoratrice (oltre che, in generale, sullo stesso contratto di lavoro).
La connessione fra produttività e conciliazione, espressa dal fattore tempo, non è di per sé contestabile: poiché le esigenze della produzione da un lato, e quelle personali e di cura dall’altro, sono, in modi diversi, affamate di «tempo flessibile», qualunque risparmio di tempo è in astratto idoneo a soddisfarle meglio entrambe. Ma incentivare la prima e considerare la seconda acquisita di default è mistificante. Fra l’altro, la nuova modalità si porrà nei fatti anche in funzione sostitutiva di un «pacchetto» variabile di diritti conciliativi (congedi, permessi) dei quali il lavoratore agile potrebbe essere indotto a non avvalersi (più verosimilmente di quelli che comportano il sacrificio di una parte del reddito, ma forse non solo). È anche a questo che si pensa quando si indica la diminuzione dell’assenteismo come uno dei vantaggi attesi? Se è così, la fungibilità di fatto con la fruizione di diritti potestativi dovrebbe essere riequilibrata da un rilievo specifico attribuito alle esigenze di conciliazione, sia nella fase di accesso al lavoro agile (per esempio attraverso un obbligo di motivazione del diniego del datore di lavoro nei confronti di una proposta del lavoratore motivata da esigenze conciliative e «tecnologicamente fattibile»), sia nella definizione delle condizioni di recesso dall’accordo: difficile pensare che non siano proprio i lavoratori gravati di compiti di cura (dunque più frequentemente le lavoratrici) a essere maggiormente penalizzati da un recesso totalmente discrezionale. Sul lavoro agile si allunga così l’ombra del rischio-discriminazione.
C’è dunque, in tutta l’operazione, molto di non-detto.
C’è una scelta di politica del diritto che promuove uno spostamento dall’impegno dello Stato a destinare risorse specifiche per la conciliazione dei tempi e/o a realizzare servizi migliori per la cura, verso l’impegno di aziende e lavoratori a organizzare il lavoro in modo da aver bisogno il meno possibile di tali risorse: ma allora, a maggior ragione, se di diritti e di solidarietà sociale stiamo parlando, si può affidare questo spostamento a un accordo individuale, risolvibile ad nutum?
C’è l’indifferenza per la dimensione di genere: non perché la conciliazione condivisa sia salutata come un traguardo culturalmente raggiunto, ma perché la nuova possibilità conciliativa – in quanto semplice ricaduta di un dato tecnico – è strutturalmente «neutra», e lascia le persone sole di fronte all’unico vero obiettivo della produzione del risultato.
Si profila, insomma, un’idea di conciliazione, presentata come obiettivo condiviso e in quanto tale potente convogliatore di consenso, ma sempre strumentale ad «altro», ridotta a pretesto, se non ad alibi, e per di più con una evidente attenuazione del tasso di solidarietà del sistema. Non è una novità. In fondo si ripropone, enfatizzata, la stessa ambiguità che ancora caratterizza gran parte della disciplina del part-time; o quella che, nella recente riforma della disciplina delle mansioni, consente il demansionamento concordato del lavoratore in cambio del «miglioramento delle condizioni di vita».
Infatti, poiché la modalità agile non è «per tutti», se la conciliazione dei tempi fosse davvero assunta come obiettivo prioritario ci si preoccuperebbe contestualmente della fruibilità in concreto dei diritti di conciliazione anche per i lavoratori e le lavoratrici meno smart, tuttora fortemente condizionata non solo dall’esiguità dell’indennità di congedo parentale, ma soprattutto da una disciplina dei rapporti di lavoro (licenziabilità facilitata, persistente frammentazione contrattuale) sempre meno accogliente nei confronti dei bisogni conciliativi. La conciliazione resta così difficile per tutti, e sempre meno incline a parlare il linguaggio dei diritti. Di nuovo c’è che, quando il lavoro si fa «agile», sotto il velo della conciliazione «neutra» potrebbe perfino approfondirsi il solco fra lavoratori e lavoratrici, le quali dovranno dimostrarsi ancor più agili del solito, e conciliare i tempi, come sempre, da sole.
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