La concertazione sociale non è una cosa di destra. Il governo Meloni ha avviato diversi tavoli di confronto, in particolare con i sindacati (sulla delega fiscale, sugli aggiustamenti previdenziali, sul mercato del lavoro), ma nessuno approderà ad uno scambio politico. Perché finirebbe per attribuire agli attori sociali un ruolo nel processo decisionale. Questo non fa parte della cultura della destra che crede nell’assoluto primato della politica, fino ad alimentarla anche con decisioni simboliche. Vale per tutte il cosiddetto decreto lavoro approvato dal Consiglio dei ministri il primo maggio, il giorno della Festa dei lavoratori. Per sottrarre attenzione e visibilità alle tradizionali manifestazioni sindacali ma soprattutto per affermare una visione dei rapporti sociali, con le modifiche radicali al reddito di cittadinanza, con la riduzione dei limiti ai contratti a tempo determinato, con l’estensione dell’utilizzo dei voucher. È la politica (di destra) che si occupa del lavoro, direttamente senza mediazioni e senza intermediazioni, ma con molta ideologia e scegliendo da che parte stare. Il contrario della concertazione, non solo nell’esperienza italiana.

Non deve ingannare la scelta della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, di intervenire all’ultimo congresso della Cgil. Lo ha fatto all’interno di una logica di sfida (tipica, peraltro, della cultura della destra minoritaria) al grande sindacato della sinistra, potenzialmente soggetto federatore (almeno nelle piazze) delle tante anime dell’opposizione politica. C’è stata – certo – la legittimazione del sindacato ma limitata alla sfera sociale, alla rappresentanza del mondo del lavoro dipendente. Non oltre. Non c’è un ruolo politico del sindacato (e di tutti gli altri corpi intermedi) nella concezione della destra politica. Nell’affermazione della destra al potere è funzionale la perdita di ruolo di tutti i soggetti intermedi, di rappresentanza di interessi. Ciò che conta è il rapporto diretto tra leader politico ed elettori. Non si cerca la negoziazione, lo scambio, appunto, che presuppone il reciproco riconoscimento politico. L’introduzione in alcuni cedolini delle pensioni di luglio di una voce che richiamava un presunto “bonus Meloni” è stata rapidamente eliminata, ma è stata significativa del modo di interpretare le dinamiche tra politica e società. Non diversamente si è sviluppata la partita sulla riforma fiscale, al di là, delle reali coperture finanziarie, è emersa chiara la volontà di instaurare un rapporto diretto con il cittadino/elettore al quale si concede con un tragitto verticale (alto-basso), ignorando le osservazioni critiche provenienti da più parti, segmentando i contribuenti in base alle presunte scelte politiche, compromettendo il principio costituzionale della progressività contributiva.

Un metodo di governo che incrina la relazione diretta con gli elettori e che tende a rompere il monopolio. E, per questo, estraneo a chi crede nell’assoluto primato della politica

Nulla deve frapporsi tra eletto nelle assemblee ed elettori, nonostante la crescente disaffezione al voto, perché viene percepito come una minaccia alla democrazia parlamentare. Il malessere sociale, dunque, genera il rancoroso distacco del popolo dalle élite, porta consenso al conservatorismo di destra, delegittima le organizzazioni di rappresentanza degli interessi ma produce anche conseguenze contraddittorie. Difficile – a questo punto – non condividere la tesi di Giorgia Serughetti quando propone (ne Il vento conservatore. La destra populista all’attacco della democrazia, Laterza) di “guardare al populismo della destra radicale come un Giano bifronte, che da un lato si alimenta degli effetti distruttivi prodotti dal neoliberismo in campo sia economico, sia sociale e politico, ma insieme ne perpetua la logica essenziale, spingendo sull’individualismo competitivo, sul mantra dell’efficienza, e spesso su politiche a vantaggio dei più ricchi; dall’altro fa appello ai valori familiari, al nativismo, alla religione, alle politiche di law and order, per rafforzare le gerarchie sociali”.

La concertazione è quindi stata una cosa di sinistra quando in Italia è stata realizzata? A trent’anni dalla firma (il 23 luglio del 1993) del Patto Ciampi sulla politica dei redditi e sul modello di contrattazione viene da rispondere proprio di sì, pensando ai meccanismi redistributivi e alle tutele sociali introdotti con quell’accordo e anche con i successivi (governi Dini, Prodi) condivisi da tutti i sindacati, non considerando in questa sede le intese che hanno prodotto rotture del fronte sindacale.

La concertazione è quindi stata una cosa di sinistra quando in Italia è stata realizzata?

Trent’anni fa era un’altra Italia, finiva la Prima Repubblica e cominciava la lunga transizione verso la Seconda, con già i primi sintomi di un sistema nato malato (populismo, partiti personali, crisi di rappresentatività dei soggetti politici, parcellizzazione della rappresentanza degli interessi). Di fronte a una doppia emergenza (quella politico-istituzionale con il crollo della “Repubblica dei partiti” travolta dalle inchieste della magistratura sulla corruzione; e quella economico-sociale fatta di inflazione, recessione, disoccupazione), l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scelse di governare con la concertazione. “Il metodo della concertazione – scrisse Ciampi in Un metodo per governare (Il Mulino, 1996) – ha offerto al Paese un elemento di unità e di coesione in un momento in cui le forze centrifughe erano forti, nella politica, nella società […]. Senza quell’accordo e senza quel metodo che ne garantiva il successo nel lungo periodo, nel 1993 l’inflazione non sarebbe stata piegata, la recessione sarebbe stata più dura, i tassi di interesse più alti, la spesa pubblica più elevata, la disoccupazione maggiore”.

Dietro il metodo di governo si consumò lo “scambio” politico: i sindacati accettavano la logica della moderazione salariale (era già stata abolita la scala mobile) scommettendo sui comportamenti virtuosi ancorati al tasso di inflazione programmata, in cambio ottenevano la legittimazione politica, il riconoscimento di soggetti coinvolti nei processi di decisione. Una vera delega di funzioni pubbliche. Un passaggio che ha mutato profondamente il sindacato italiano, chiudendo la stagione conflittuale del “lungo Autunno caldo”. Da lì in poi il sindacato italiano ha preteso non solo un ruolo politico ma anche di partecipare alle decisioni. Tutto si è svolto prevalentemente all’interno di dinamiche politiche, ma nell’assenza di un quadro di regole riconosciute, a cui ha contribuito un bipolarismo immaturo. Questa logica segna anche i rapporti tra l’attuale esecutivo di destra e le organizzazioni sindacali. La risposta al governo che non ha scelto la concertazione è da parte della Cgil e della Uil una risposta politica, con strumenti sindacali – certo – ma politica nella sua essenza. Tanto da coinvolgere, quasi spontaneamente, nelle loro iniziative l’opposizione politica parlamentare. E politica è la scelta opposta della Cisl di distinguersi perlopiù dalla linea degli altri sindacati, apprezzando, il dialogo formale instaurato con Palazzo Chigi. È però impietosa la critica che ha rivolto all’attuale dirigenza cislina l’ex segretario generale Savino Pezzotta: “L’accettazione di un ruolo spogliato di valenza politica, seppur autonoma, rischia di generare una regressione verso il 'mestiere' e di relegare il sindacalismo a una semplice dimensione negoziale privatistica o corporativa” (Mia povera Cisl, non ti riconosco, articolo pubblicato su “L’Unità” il 10 giugno 2023).

Sempre scelte politiche, allora. La concertazione è degenerata in una patologia, ma i governi che non l’hanno praticata hanno prodotto, tuttavia, fratture sociali profonde, si pensi a Berlusconi sull’articolo 18 e a Renzi sul Jobs Act. La nuova inflazione, la vecchia questione salariale, la diffusione del lavoro povero, la politica monetaria restrittiva e, infine, la frenata dell’economia richiederebbero un’azione corale, come avrebbe probabilmente detto Ciampi. Non sarà così. La concertazione è un metodo di governo che la destra rifugge perché incrina la relazione diretta con gli elettori, fa scorrere l’eventuale consenso lungo una pluralità di canali, rompe il monopolio. I soggetti sociali sono da intralcio al paternalismo sociale di chi rivendica, in economia, una concezione “produttivista” della società, nella quale vanno tolti tutti i vincoli possibili all’azione del micro imprenditore. Questo ci aspetta, in attesa del prossimo governo. Pro labour, si intende.