Nel nostro Paese la questione dello ius soli ha dato vita non solo a un imbarazzante iter parlamentare (ben documentato in un recente intervento su questo sito), ma anche a una singolare altalena di sentimenti e disposizioni d'animo da parte del pubblico, almeno a stare a quanto riportano i media e i numerosi sondaggi che si sono susseguiti negli anni. Queste oscillazioni non sono dovute solo all'inevitabile intreccio con i difficili equilibri politici degli ultimi mesi e alla forza d'urto dei flussi migratori che continuano a interessare l’Italia. Gli atteggiamenti sono ondivaghi anche perché gran parte della discussione, da una parte e dall'altra, è basata su sentimenti ed emozioni che per loro natura sono altamente instabili e volatili.
La campagna contro lo ius soli è connotata da forti accenti identitari e razzisti; la legge è dipinta come un pericoloso cedimento alla logica dell'annacquamento etnico, che porta a sacrificare gli interessi degli italiani «veri» a vantaggio di estranei senza il giusto pedigree. Ma purtroppo anche molte delle campagne mediatiche e delle prese di posizione a favore dello ius soli condividono questo stesso filone narrativo. Lo ius soli, secondo una strategia retorica imperante, è un atto di dovuto riconoscimento per quei ragazzi che, essendo nati e cresciuti qui, sono di fatto «al 100% italiani». Ragazzi che sono figli di migranti, certo, ma possono esibire, come credenziali inoppugnabili di accesso alla cittadinanza, una dieta a base di spaghetti e l'inconfondibile cadenza di un qualche dialetto nostrano.
Secondo questa concezione, i diritti di cittadinanza sono il riconoscimento di legami profondi e di valore che i residenti stringono con il Paese in cui vivono: le relazioni amicali, l'uso della lingua, l'abitudine e il gusto per le tradizioni e il modo di vivere locale, l'affetto che si sviluppa per il suo paesaggio tipico. Questo modo di concepire i requisiti di cittadinanza è incredibilmente rozzo e primitivo, e fa torto allo stesso nobile principio dell'identità nazionale. In realtà, infatti, non è basato su un'idea di nazione come impresa politica e culturale condivisa in nome di principi e ideali comuni, ma su una concezione sentimentalistica dei rapporti che si creano fra le persone e la terra in cui nascono e crescono.
Questo approccio sentimentalistico non è solo fonte di atteggiamenti instabili e volatili da parte del pubblico nei confronti dei residenti di origine straniera, ma è anche profondamente mistificatorio, perché fornisce una rappresentazione edulcorata della realtà alla quale si trovano spesso di fronte i migranti, sia di prima sia di seconda generazione. Dipinge un mondo fatto di spaghettate, partite di pallone e girotondi multicolori, quando molti dei bambini (non solo figli di migranti) cresciuti qui, un Paese in cui un minore su tre è a rischio di povertà ed esclusione sociale, potrebbero raccontare una storia molto meno rosea delle proprie relazioni col Paese ospite.
Ma ciò che è più grave e importante è che questo approccio alla questione delle basi dei diritti e dello status di cittadinanza mette completamente in ombra una delle loro funzioni vitali, che è anche quella che dovrebbe contare di più nella discussione sullo ius soli, ossia la protezione delle persone dalla vulnerabilità che deriva loro dalla presenza stabile nella società di residenza. Quando si vive a lungo, si studia, si lavora e si intessono relazioni sociali in un dato Paese, si stabilisce una rete di rapporti di dipendenza che possono rendere estremamente vulnerabili e ricattabili. Più la rete di questi rapporti si infittisce, più si è esposti a questi pericoli. Il turista di passaggio può semplicemente scrollarsi la terra da sotto i piedi e andarsene. Qualcuno che abbia vissuto e lavorato a lungo in un Paese, ma ancora di più un bambino che vi è nato e cresciuto, o un ragazzino che vi abbia trascorso la maggior parte dei propri anni formativi, non possono fare altrettanto. I pieni diritti di cittadinanza e l'eguale status che essi garantiscono, fra le altre cose, servono a proteggere le persone che vivono stabilmente in una società dalla vulnerabilità che deriva loro dalle relazioni di dipendenza che inevitabilmente si creano. È per questa ragione, cioè proprio perché servono a proteggere dal capriccio, dai ricatti e dall'arbitrio altrui, che è importante che siano il meno condizionali e contingenti possibile. Si tratta di un principio che vale in generale, e si dovrebbe applicare con particolare attenzione nel caso dei minori, che sono particolarmente vulnerabili.
Guardare alla cittadinanza come una protezione contro la vulnerabilità, anziché come una santificazione del folclore nazionale o dei sentimenti d'amore per il Paese di residenza, aiuta anche a superare l'idea di una necessaria contrapposizione fra gli interessi dei migranti e quelli dei più sfortunati fra gli Italiani, spesso agitata, come ricordato, anche nel dibattito sullo ius soli. Non c'è nulla di più pericoloso e controproducente, per coloro che sono in condizioni di relativo svantaggio sociale, della creazione di una sottoclasse di individui ancora più fragili e vulnerabili. La privazione di diritti e dello status di eguaglianza produce dumping sociale e una corsa verso il basso delle condizioni di tutti. Il miglior modo per pensare alle questioni di cittadinanza, anziché lasciarsi andare ai sentimenti, è ragionare seriamente sugli strumenti istituzionali con cui si possono proteggere le persone dalla vulnerabilità, e con questo creare le condizioni per un mondo sociale più eguale e più giusto.
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